24 febbraio 2006
17 dicembre 2005
immagini che parlano...
Queste immagini parlano... più forte di ogni voce, più a fondo di ogni pensiero. Parlano di donne e di uomini americani... ma potrebbero essere italiani, inglesi, polacchi, australiani...
Queste immagini parlano di speranza...

di amore...

di coraggio...

di dolore...

parlano di gioia...

di orrore e tenerezza...

di preghiera e di amicizia...

di nostalgia...

di sacrificio...

...parlano di tutto ciò che è normale nella vita... ma che dentro una guerra sembra lontano e irreale.
Ora che gli iracheni hanno espresso con un voto il loro desiderio di libertà scoperto come un gusto doloroso e tragico (perché la libertà è sempre un percorso tragico), immagini come queste restituiscono l'unico grazie dovuto a chi tutto ciò ha garantito, costruito, difeso, nell'indifferenza e nell'odio di falsi profeti e cantori di sventura.
All'umile anarca, dal suo spazio irreale, non restano che tre cose:
lanciare il suo diprezzo verso i pacifisti ipocriti che sventolano ancora i loro stracci arcobaleno e le loro bugie al riparo di una libertà che uomini come questi hanno conquistato e difeso per 50 anni;
sperare che l'Iraq libero diventi il simbolo di un orizzonte nuovo che scuota l'Europa dal suo torpore e dal suo egoismo;
raccontare l'orgoglio di appartenere ad un paese, l'Italia, i cui soldati, di questo dono di libertà, sono stati artefici...
Queste immagini parlano di speranza...

di amore...

di coraggio...

di dolore...

parlano di gioia...

di orrore e tenerezza...

di preghiera e di amicizia...

di nostalgia...

di sacrificio...

...parlano di tutto ciò che è normale nella vita... ma che dentro una guerra sembra lontano e irreale.
Ora che gli iracheni hanno espresso con un voto il loro desiderio di libertà scoperto come un gusto doloroso e tragico (perché la libertà è sempre un percorso tragico), immagini come queste restituiscono l'unico grazie dovuto a chi tutto ciò ha garantito, costruito, difeso, nell'indifferenza e nell'odio di falsi profeti e cantori di sventura.
All'umile anarca, dal suo spazio irreale, non restano che tre cose:
lanciare il suo diprezzo verso i pacifisti ipocriti che sventolano ancora i loro stracci arcobaleno e le loro bugie al riparo di una libertà che uomini come questi hanno conquistato e difeso per 50 anni;
sperare che l'Iraq libero diventi il simbolo di un orizzonte nuovo che scuota l'Europa dal suo torpore e dal suo egoismo;
raccontare l'orgoglio di appartenere ad un paese, l'Italia, i cui soldati, di questo dono di libertà, sono stati artefici...
29 novembre 2005
sansonetti tra falluja e jeeg robot

Poi leggo un articolo di Sansonetti su Liberazione di qualche giorno fa. Riguarda Falluja e il servizio di RaiNews24; si chiede del perché di tanto silenzio.
Scrive: “Le prove esibite dalla Rai nel documentario (…) non lasciano dubbi: i cadaveri degli iracheni sono bruciati e quasi squagliati da qualche sostanza che non ha bruciato però i loro vestiti. Cioè, appunto, il fosforo bianco, che agisce attraverso una reazione chimica con l'ossigeno e danneggia e disintegra gli organismi viventi ma non le cose inanimate”.
Penso che anche lui dovrebbe smetterla, alla sua età, di guardare cartoni animati giapponesi.
01 novembre 2005
iraq, capriole e fattore K

Nel marzo del 2003, Paolo Mieli, che ancora non era tornato a dirigere il Corrierone ma si limitava a smistarne la posta, rispondeva ad un lettore che evidenziava la contraddizione di una sinistra che quando sta al governo fa le guerre umanitarie senza l’Onu e quando sta all’opposizione si scopre pacifista, con queste parole: “Attenzione dunque agli argomenti che si usano per muovere obiezione alla guerra in Iraq. E attenzione soprattutto alle capriole. O quantomeno all’eccesso di capriole” . Tana per i caprioloni! La bacchettata a D’Alema e compagni e alla loro ipocrisia era data.
Ora, dopo che Fausto Carioti con la sua solita puntualità svizzera, ha ampiamente sputtanato i grilli parlanti del giornalismo nostrano, a noi non resta che aggiungere alcune semplici considerazioni: Berlusconi ed il governo italiano sono sempre stati contrari alla guerra in Iraq, tant’è che (particolare di non poco conto) noi la guerra non l’abbiamo fatta. Non è un mistero che la diplomazia italiana abbia tentato fino all’ultimo lo spiraglio della risoluzione Onu per legittimare l’intervento appoggiando gli sforzi britannici in tal senso; e che nei mesi precedenti allo scoppio delle ostilità si sia impegnata in un ruolo di mediazione all’interno dell’Unione Europea per cercare di riportare il conflitto perlomeno all'interno di un'operazione Nato. Ma fin dal novembre 2002, Berlusconi dichiarò la propria contrarietà all’invio dei soldati italiani in Iraq e nei giorni convulsi precedenti alla scadenza dell'ultimatum, i giornali italiani erano pieni di titoli sul rifiuto italiano di mandare truppe in Iraq.
Tant'è che il 19 marzo del 2003 il Parlamento italiano votò, NON per la partecipazione o meno dell’Italia alla guerra in Iraq (questione che non era mai stata presa in considerazione dal governo), ma per la concessione all’uso della basi americane in Italia e per il diritto di sorvolo degli aerei della coalizione. Autorizzazione del resto già concessa in Europa anche da quei paesi come Francia, Belgio e Germania che si erano opposti con più veemenza alle scelte dell'amministrazione Bush.
Ora va ricordato che in quella seduta il centorsinistra italiano votò compatto contro. In altre parole, non solo la componente paleocomunista, ma anche la parte riformista e moderata della sinistra, accettò di confondere la legittima opposizione politica alla guerra con una posizione assolutamente antioccidentale in termini strategici che rimetteva in discussione la stessa collocazione atlantica dell'Italia. Furono non pochi gli osservatori che intravidero in questa operazione un pericoloso ritorno di quel fattore K che per decenni aveva condizionato la vita politica italiana, quando le posizioni antioccidentali del PCI impedivano di fatto un'alternanza democratica nel nostro paese. In fondo quest'ambiguità oggi continua: parlare come al Zarqawi e definire i nostri soldati "truppe di occupazione" (dimenticando che sono lì su mandato Onu e su esplicita richiesta di un governo democratico riconosciuto dalla comunità internazionale), chiamare resistenti quelli che mettono bombe nei mercati di Baghdad, decidere di non sfilare per affermare il diritto di Israele ad esistere, sembrano tutti elementi che fanno riflettere sulla possibilità che questo fattore K sia tornato davvero nella sinistra italiana.
Giusto per la cronaca, per i corti di memoria e per i caprioloni estremi e moderati, vale la pena ricordare che dal 1945 ad oggi il nostro Paese ha partecipato attivamente ad un solo conflitto militare… quello contro la Serbia, condotto al di fuori dell’egida Onu. La guerra in Kosovo si realizzò sotto il governo D’Alema ma fu progettata durante il governo Prodi che firmò l'Act Order di impegno iscrivendo il nostro paese tra quelli belligeranti.
Per usare una terminologia cara ai pacifisti come Prodi e D’Alema (quelli del "no alla guerra senza se e senza ma"), potremmo dire che solo una volta l’articolo 11 della Costituzione è stato violato: quando al governo c’erano proprio Prodi e D’Alema…. e questo a proposito di capriole…
21 ottobre 2005
tilly lo yankee e il silenzio dell'eroe

“...io sono stato quello che altri non si sono preoccupati di essere. Io sono andato laddove altri hanno avuto paura di andare e ho fatto quello che altri non sono riusciti a fare. Non ho mai chiesto nulla a coloro che non hanno dato niente...”, così scriveva G.L. Skypeck poeta americano volontario in Vietnam.
Penso che valga la pena continuare a ricordare Pat Tilman e tracciare linee di memoria attorno a ciò che al nostro mondo appare così strano. Tilly nel luglio del 2002, all’età di 25 anni e al culmine della carriera, decise di arruolarsi nei reparti speciali americani, forse per curare la ferita dell’11 settembre, forse semplicemente perché così riteneva giusto fare. Lasciò la fama e tanti tanti soldi: un contratto annuale da 1,2 milioni di dollari con gli Arizona Cardinals di Phoenix, copertine di giornali, articoli, interviste, per lo stipendio di un soldato americano (1.400 dollari) e l’anonimato dell’esercito. Tilly giocava in difesa e nel 2000 era stato premiato come il miglior difensore del campionato americano. Ma dopo l’11 settembre, come ricordava Bob Ferguson il suo manager, “ha pensato che ci fosse qualcosa di più importante da difendere della propria squadra”. Forse ci si può non sorprendere della scelta di questo giovane campione, perché esiste una vecchia tradizione di profondo patriottismo nello sport americano e sopratutto della NFL (la National Football League americana). Durante la seconda guerra mondiale oltre 600 suoi giocatori professionisti servirono l’esercito americano e di questi 90 non tornarono più. Dopo l’11 settembre 2001 la NFL distribuì milioni di bandiere americane ai tifosi in tutto il paese ed il Super Bowls che si svolse a New Orleans quell’anno ebbe una tale carica di patriottismo da imbarazzare anche i più strenui ambienti conservatori.
Forse ci si può abbandonare a interpretazioni psicologiche sull’eccentricità del personaggio, sul suo amore per la sfida, sul fatto che saliva le torri dei riflettori dello stadio per starsene un po’ da solo a meditare.
Forse c’è qualcosa di più profondo che sta cambiando il volto dell’America: un nuovo patriottismo che tocca le generazioni più giovani e attraversa le classi sociali e i sessi. Un nuovo sentimento di appartenenza che l’11 settembre ha rinsaldato e che, differenza dei tempi del Vietnam, spinge giovani non solo della working-class ma anche delle classi medie ed alte (professionisti, laureati) ad arruolarsi nell’esercito; Peggy Noonan ha scritto sul Wall Street Journal “ come diceva una canzone dei tempi del Vietnam, «qualcosa sta succedendo qui». Sempre più giovani uomini e giovani donne di grande talento entrano nelle Forze armate per aiutare il proprio paese e perché, così sembra, lo amano”.
Tilly tornò in una cassa di zinco avvolta in una bandiera americana, anonima tra tante altre bare che spietatamente i giornali di tutto il mondo hanno sbattuto in prima pagina. Continua a sorprendermi il silenzio, l’umiltà, il rigore e la dignità con cui l’America continua ad accogliere i suoi caduti. Sul Daily Guardian, Steve Yuhas ha scritto che “c’è qualcosa di unicamente americano nell’anonimato di queste bare che tornano d’oltremare”. Forse ha ragione e guardandole mi vengono in mente le bare avvolte nel tricolore dei soldati di Nassiriya. C’è stato qualcosa anche di “unicamente italiano” nel dolore dignitoso con cui sono stati accolti i nostri soldati e in quel tappeto di fiori colorati lasciati sulla scalinata dell’Altare della Patria.
La scelta di Pat Tillman, così come l’urlo disperato di Fabrizio Quattrocchi, ci raccontano altre storie che non troveremo mai nel grigiore delle piazze arcobaleno. Tilly lo yankee ricorda un po' Ernst Jünger nelle campagne della Somme “quando la guerra rivelava i suoi enigmi più profondi”; ricorda Hemingway tra i paesi in fiamme della Spagna; ricorda i giovani futuristi italiani tra le trincee della Grande guerra. Vene di follia o atti d’amore disperati, o entrambe le cose, perché i gesti straordinari (quelli che legano amore e follia) sono quelli che si fanno in silenzio in mezzo alle urla del mondo.
Come scriveva Alexander Lernet-Holenia, cantore di un’Europa scomparsa: “Cos’è esattamente la gloria? Il baccano attorno al silenzio di un eroe”.