tilly lo yankee e il silenzio dell'eroe
So che parlare di lui non va più molto di moda. Da quando poi il Comando americano ha confessato che è caduto, certo in combattimento, ma sotto fuoco amico su Pat Tilman, detto Tilly, è scesa un'ombra insieme d'imbarazzo e di cinismo. Eppure è passato appena 1 anno e poco più da quando uno dei più grandi campioni del football americano è morto tra le montagne dell'Afghanistan.
“...io sono stato quello che altri non si sono preoccupati di essere. Io sono andato laddove altri hanno avuto paura di andare e ho fatto quello che altri non sono riusciti a fare. Non ho mai chiesto nulla a coloro che non hanno dato niente...”, così scriveva G.L. Skypeck poeta americano volontario in Vietnam.
Penso che valga la pena continuare a ricordare Pat Tilman e tracciare linee di memoria attorno a ciò che al nostro mondo appare così strano. Tilly nel luglio del 2002, all’età di 25 anni e al culmine della carriera, decise di arruolarsi nei reparti speciali americani, forse per curare la ferita dell’11 settembre, forse semplicemente perché così riteneva giusto fare. Lasciò la fama e tanti tanti soldi: un contratto annuale da 1,2 milioni di dollari con gli Arizona Cardinals di Phoenix, copertine di giornali, articoli, interviste, per lo stipendio di un soldato americano (1.400 dollari) e l’anonimato dell’esercito. Tilly giocava in difesa e nel 2000 era stato premiato come il miglior difensore del campionato americano. Ma dopo l’11 settembre, come ricordava Bob Ferguson il suo manager, “ha pensato che ci fosse qualcosa di più importante da difendere della propria squadra”. Forse ci si può non sorprendere della scelta di questo giovane campione, perché esiste una vecchia tradizione di profondo patriottismo nello sport americano e sopratutto della NFL (la National Football League americana). Durante la seconda guerra mondiale oltre 600 suoi giocatori professionisti servirono l’esercito americano e di questi 90 non tornarono più. Dopo l’11 settembre 2001 la NFL distribuì milioni di bandiere americane ai tifosi in tutto il paese ed il Super Bowls che si svolse a New Orleans quell’anno ebbe una tale carica di patriottismo da imbarazzare anche i più strenui ambienti conservatori.
Forse ci si può abbandonare a interpretazioni psicologiche sull’eccentricità del personaggio, sul suo amore per la sfida, sul fatto che saliva le torri dei riflettori dello stadio per starsene un po’ da solo a meditare.
Forse c’è qualcosa di più profondo che sta cambiando il volto dell’America: un nuovo patriottismo che tocca le generazioni più giovani e attraversa le classi sociali e i sessi. Un nuovo sentimento di appartenenza che l’11 settembre ha rinsaldato e che, differenza dei tempi del Vietnam, spinge giovani non solo della working-class ma anche delle classi medie ed alte (professionisti, laureati) ad arruolarsi nell’esercito; Peggy Noonan ha scritto sul Wall Street Journal “ come diceva una canzone dei tempi del Vietnam, «qualcosa sta succedendo qui». Sempre più giovani uomini e giovani donne di grande talento entrano nelle Forze armate per aiutare il proprio paese e perché, così sembra, lo amano”.
Tilly tornò in una cassa di zinco avvolta in una bandiera americana, anonima tra tante altre bare che spietatamente i giornali di tutto il mondo hanno sbattuto in prima pagina. Continua a sorprendermi il silenzio, l’umiltà, il rigore e la dignità con cui l’America continua ad accogliere i suoi caduti. Sul Daily Guardian, Steve Yuhas ha scritto che “c’è qualcosa di unicamente americano nell’anonimato di queste bare che tornano d’oltremare”. Forse ha ragione e guardandole mi vengono in mente le bare avvolte nel tricolore dei soldati di Nassiriya. C’è stato qualcosa anche di “unicamente italiano” nel dolore dignitoso con cui sono stati accolti i nostri soldati e in quel tappeto di fiori colorati lasciati sulla scalinata dell’Altare della Patria.
La scelta di Pat Tillman, così come l’urlo disperato di Fabrizio Quattrocchi, ci raccontano altre storie che non troveremo mai nel grigiore delle piazze arcobaleno. Tilly lo yankee ricorda un po' Ernst Jünger nelle campagne della Somme “quando la guerra rivelava i suoi enigmi più profondi”; ricorda Hemingway tra i paesi in fiamme della Spagna; ricorda i giovani futuristi italiani tra le trincee della Grande guerra. Vene di follia o atti d’amore disperati, o entrambe le cose, perché i gesti straordinari (quelli che legano amore e follia) sono quelli che si fanno in silenzio in mezzo alle urla del mondo.
Come scriveva Alexander Lernet-Holenia, cantore di un’Europa scomparsa: “Cos’è esattamente la gloria? Il baccano attorno al silenzio di un eroe”.
“...io sono stato quello che altri non si sono preoccupati di essere. Io sono andato laddove altri hanno avuto paura di andare e ho fatto quello che altri non sono riusciti a fare. Non ho mai chiesto nulla a coloro che non hanno dato niente...”, così scriveva G.L. Skypeck poeta americano volontario in Vietnam.
Penso che valga la pena continuare a ricordare Pat Tilman e tracciare linee di memoria attorno a ciò che al nostro mondo appare così strano. Tilly nel luglio del 2002, all’età di 25 anni e al culmine della carriera, decise di arruolarsi nei reparti speciali americani, forse per curare la ferita dell’11 settembre, forse semplicemente perché così riteneva giusto fare. Lasciò la fama e tanti tanti soldi: un contratto annuale da 1,2 milioni di dollari con gli Arizona Cardinals di Phoenix, copertine di giornali, articoli, interviste, per lo stipendio di un soldato americano (1.400 dollari) e l’anonimato dell’esercito. Tilly giocava in difesa e nel 2000 era stato premiato come il miglior difensore del campionato americano. Ma dopo l’11 settembre, come ricordava Bob Ferguson il suo manager, “ha pensato che ci fosse qualcosa di più importante da difendere della propria squadra”. Forse ci si può non sorprendere della scelta di questo giovane campione, perché esiste una vecchia tradizione di profondo patriottismo nello sport americano e sopratutto della NFL (la National Football League americana). Durante la seconda guerra mondiale oltre 600 suoi giocatori professionisti servirono l’esercito americano e di questi 90 non tornarono più. Dopo l’11 settembre 2001 la NFL distribuì milioni di bandiere americane ai tifosi in tutto il paese ed il Super Bowls che si svolse a New Orleans quell’anno ebbe una tale carica di patriottismo da imbarazzare anche i più strenui ambienti conservatori.
Forse ci si può abbandonare a interpretazioni psicologiche sull’eccentricità del personaggio, sul suo amore per la sfida, sul fatto che saliva le torri dei riflettori dello stadio per starsene un po’ da solo a meditare.
Forse c’è qualcosa di più profondo che sta cambiando il volto dell’America: un nuovo patriottismo che tocca le generazioni più giovani e attraversa le classi sociali e i sessi. Un nuovo sentimento di appartenenza che l’11 settembre ha rinsaldato e che, differenza dei tempi del Vietnam, spinge giovani non solo della working-class ma anche delle classi medie ed alte (professionisti, laureati) ad arruolarsi nell’esercito; Peggy Noonan ha scritto sul Wall Street Journal “ come diceva una canzone dei tempi del Vietnam, «qualcosa sta succedendo qui». Sempre più giovani uomini e giovani donne di grande talento entrano nelle Forze armate per aiutare il proprio paese e perché, così sembra, lo amano”.
Tilly tornò in una cassa di zinco avvolta in una bandiera americana, anonima tra tante altre bare che spietatamente i giornali di tutto il mondo hanno sbattuto in prima pagina. Continua a sorprendermi il silenzio, l’umiltà, il rigore e la dignità con cui l’America continua ad accogliere i suoi caduti. Sul Daily Guardian, Steve Yuhas ha scritto che “c’è qualcosa di unicamente americano nell’anonimato di queste bare che tornano d’oltremare”. Forse ha ragione e guardandole mi vengono in mente le bare avvolte nel tricolore dei soldati di Nassiriya. C’è stato qualcosa anche di “unicamente italiano” nel dolore dignitoso con cui sono stati accolti i nostri soldati e in quel tappeto di fiori colorati lasciati sulla scalinata dell’Altare della Patria.
La scelta di Pat Tillman, così come l’urlo disperato di Fabrizio Quattrocchi, ci raccontano altre storie che non troveremo mai nel grigiore delle piazze arcobaleno. Tilly lo yankee ricorda un po' Ernst Jünger nelle campagne della Somme “quando la guerra rivelava i suoi enigmi più profondi”; ricorda Hemingway tra i paesi in fiamme della Spagna; ricorda i giovani futuristi italiani tra le trincee della Grande guerra. Vene di follia o atti d’amore disperati, o entrambe le cose, perché i gesti straordinari (quelli che legano amore e follia) sono quelli che si fanno in silenzio in mezzo alle urla del mondo.
Come scriveva Alexander Lernet-Holenia, cantore di un’Europa scomparsa: “Cos’è esattamente la gloria? Il baccano attorno al silenzio di un eroe”.
9 Comments:
gande come al solito... bel post
Che dire, c'è la storia di un'uomo a cui dedicai più di un post, c'è patriottismo, amor patrio, l'urlo di Quatrocchi...sembra scritto per me questo post, non da me però, perchè ce anche tanta cultura quanta non saprei averne. Complimenti
La guerra? E' l'unica faccenda di sangue degna di rispetto..scriveva drieu...
Drieu...la Rochelle, mise quella frase in bocca a Jaime, il protagonista de L'uomo a cavallo, uno dei più bei romanzi di Drieu...ma quella era la Bolivia del 1868, terra di avventura e Jaime è il giovane tenente di cavalleria animato dalla passione romantica ... per questo la scelta di Tilly, nell'America del 2002 è più sconvolgente... qui non c'é Simon Bolivar...
P.S. per Otimaster: ...ed in te c'é tanta dignità quanto non saprei...
Solo un saluto.
il tuo post è davvero ben scritto.
Un post meraviglioso, esemplare.
I miei complimenti.
Ciao!
Post eccezzionale come sempre....
Il Templare
molto intiresno, grazie
Perche non:)
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