Andrea e Clelia

Confondo ormai la scienza con la sua negazione; il sapere con l’arbitrio; il diritto e la legge con il sopruso. Ma è un problema mio se vedo la realtà in frantumi.
Mi ritorna una storia che le cronache hanno sputato nei giorni scorsi. Una donna pistoiese di 30 anni, moglie di un operaio, decide di abortire. Lei e lui hanno già due bambini e non possono tenerne un terzo; non ce la fanno economicamente. Si decide di abortire per tanti motivi e nessuno è migliore di un altro; la scelta del baratro rende indifferente sapere come si precipita. Perché nell’Occidente dei diritti assoluti e delle libertà individuali, si può fare una legge astratta per tutelare i vizietti di ricchi omosessuali radical-chic e i “vincoli affettivi” di coppie precarie, ma una legge per aiutare le famiglie di carne e sudore che fondano l’amore sulla concretezza di un figlio e quindi sull’arcaico senso del futuro… quella no. E così la mamma di Pistoia abortisce. Tutto secondo la legge. I medici operano, manipolano, invadono, eseguono e per essere sicuri su sua richiesta le impiantano uno IUD, la spirale per evitare future gravidanze. Tutto a posto secondo protocollo medico e normativa vigente. Poi, un mese dopo, visita di controllo per dolori addominali inconsueti e la scoperta: il bambino c’è ed è vivo di 4 mesi. Allora decidono di tenerlo e i suoi fratellini gli regalano anche un nome: Andrea.
Di fronte alle polemiche, la Asl di Pistoia emana un comunicato ufficiale e rassicurante. La malsanità non c’entra nulla: ''come è noto, le IVG chirurgiche eseguite entro 90 giorni di amenorrea comportano un rischio di insuccesso del 2,3 per mille (...)”. Deriva del linguaggio, naufragio della ragione. Per capirci, i 2,3 bambini ogni mille che si salvano da un aborto sono, agli occhi della medicina, un insuccesso. Ineccepibile.
In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio...
Poi mi arriva una lettera bella, come sono belle le cose inaspettate e forse non casuali. È scritta da due genitori che non conosco e racconta di un dolore profondo per una vita scivolata via solo due ore dopo che l’ha toccata la luce del mondo. La piccola Clelia non ce l’ha fatta; è rimasta lì “adagiata nell’incubatrice, con i suoi capelli scuri ancora umidi, da formare quasi delle piccole treccine”. Come avviene in quel tempo fuori dal tempo che la pietà inventa, loro invitano a pregare per il loro angelo; un gesto anti-moderno che evoca silenzio fin dentro l’abisso del dolore che deve urlare troppo forte. In questa lettera si definiscono “un papà e una mamma a mani vuote”, ma che la morte della piccola Clelia “li trascina verso la vita”; e io penso che questa lettera, fatta circolare tra gente che non si conosce, ha qualcosa che assomiglia a una solidarietà incarnata. Perché quel dolore che li ha lasciati “senza parole” ora gli impone di “trovare le parole” e con esse un senso per loro e per noi.
In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio (Gv 1,1)
Andrea e Clelia raccontano due storie che le nostre parole non sanno più raccontare. Perché il linguaggio del moderno non ha più ragione e il linguaggio della fede incontra la ragione perché non è moderno. Andrea è raccontato nella lingua della scienza, lingua moderna e strumento di una civiltà che si crede razionale ma è solo razionalista. Clelia si racconta nella lingua della fede, dentro una preghiera in cui le parole tornano ad essere logos.
Dice Giovanni che in principio era il Verbo, cioè il Logos che non è solo parola ma anche ragione; “una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione” ha detto Benedetto XVI, in quella Lectio capolavoro che è il discorso di Ratisbona. E il logos è Dio. L’incontro tra fede, parola e ragione è il punto più alto della cultura occidentale; il crocevia dove il dubbio greco abbraccia il Dio biblico.
L’età della comunicazione che è anche quella della Tecnica sovrana e della scienza che non vuole più sapere, sta perdendo senso e parola. La preghiera che è il luogo del non-moderno, trova invece la parola per spiegare il senso laddove non c’è. Questo Occidente stanco e affannato giunto al capolinea della storia, sembra trovare un sussulto in quegli spazi dove i censori vedono solo superstizione; ma è inevitabile che sia così. Il labirinto di Chartres che richiama il mistero, il dubbio di un percorso, la penombra di una fede che diventa luce, oggi non lo percorre più nessuno; è più facile una stupida e banale linea retta. Tutto è chiaro nel tempo della modernità tesa tra “un papà e una mamma a mani vuote” e i nuovi talebani della scienza: mentre Clelia è diventato un angelo, il piccolo Andrea è solo un insuccesso.
Immagine: Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1624
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