26 novembre 2007

sentirsi estranei a un Tocqueville Party

Pieter Bruegel, Banchetto nuziale, 1568Non è che sia una bellissima sensazione quella dell’estraneità. Soprattutto quando uno pensava di essere a casa sua. Non un’estraneità umana ci mancherebbe. Ma politica. Il Tocqueville Party di sabato scorso a Roma è stata una grande occasione per riabbracciare vecchi amici e conoscerne di nuovi. Ma anche un momento difficile in cui misurare il livello di tensione che tocca la blogosfera di centrodestra.
L'Anarca abita ormai da due anni in questa "città dei liberi". Ha preso un monolocale in periferia e tutto sommato ci vive bene. Ogni tanto qualche vicino di blog rompe i coglioni, qualche siluro attraversa la strada e lo punta, ma in linea di massima Tocque-Ville è una bella città piena di vita. Delinquenza zero, stupidità ridotta ai minimi termini, discreta qualità dell’aria... insomma non sembra quasi una città italiana... e forse non lo è.
L'Anarca ha deciso di prendere casa qui perché gli era piaciuta assai quell'architettura un po' curiosa e futurista che qualcuno ha chiamato: Fusionismo. Cioè l'idea di abitare in un luogo dove è possibile far convivere anime diverse di quel mosaico colorato che è il progetto del partito unico del centrodestra. Per fare questo si è impegnato a costruire relazioni, a raccontare Tocqueville fuori da Tocqueville, a progettare evoluzioni, integrazioni... insomma si è dato un po' da fare per rendere la città più bella e accogliente.
Tocqueville è, per l'Anarca, una dimensione metapolitica dove la circolazione delle idee e del pensiero avviene dal basso e consente la contaminazione (va molto di moda dirlo!) di culture politiche diverse tra loro ma in grado di pensare la modernità in maniera complementare. Trovarsi in un condominio con una talebana laicista, con uno jungeriano più che intelligente ma troppo a sinistra perché troppo a destra e con un liberista libertario dall’io americano... ha qualcosa di affascinante e imperdibile. Liberali, conservatori, riformisti, identitari, laici, cattolici; forzaitalioti, aennini, leghisti ma anche socialisti, radicali in libera uscita, rappresentano una popolazione eterogenea ma in fondo desiderosa di essere parte di un grande progetto unitario. Un’idea assolutamente attuale anche in questi giorni di tempesta.
Dopo il Tocqueville Party di sabato scorso l’Anarca si domanda però se questo principio fusionista abbia ancora senso. O meglio, se prevalga ancora lo sforzo di raccordare sulla rete le sensibilità diverse che animano il pensiero non conformista o se anche in questa città dei liberi (?) inizino a comparire egemonie striscianti di nuovi guardiani da microcomizi.
Non capisco molto quello che sta succedendo nel centro-destra o in quello che rimane. Ma certi toni da pretoriani non mi hanno aiutato a capire meglio le dinamiche in atto e soprattutto le vie di uscita da questo pantano che rischia di travolgere tutti. Non che la condizione di minoranza spaventi il povero Anarca che la vive dai tempi giovanili e gagliardi delle università e delle strade da conquistare, ma il clima un po' tribunalizio contro An, contro Fini, contro l'indecenza della sua classe dirigente, contro l'indecenza della destra, contro l'indecenza degli indecenti con cui siamo stati costretti ad accompagnarci in questi anni ma meno male che adesso annamo pe' conto nostro, insomma il tono di qualche intervento di eccellenza francamente lo ha un po' sospreso. E questo clima ha toccato l'apice quando Dimitri Buffa è riuscito a parlare della "cura disintossicante" di Berlusconi perché "i liberali non hanno nulla da vedere con i socialisti, ma neanche con i fascisti e neppure con i leghisti". Punto e a capo.
Ora che si è ripreso dallo sbandamento e si è accorto che non aveva sbagliato Party ma era proprio quello di Tocqueville, l’Anarca, che non ha intenzione di mollare il progetto fusionista, si chiede se Tocqueville sia ancora il luogo adatto. Sia chiaro è una domanda retorica, poiché l’Anarca sa che Tocqueville è il luogo adatto. Solo che vorrebbe richiamare tutti a lasciare da parte le follie di questi giorni e a riflettere insieme sulle grandi sfide che ci aspettano.
Solo un'ultima considerazione: la polemologia ci insegna che la guerra nella sua tragicità, ha un elemento di razionalià poiché si pone come punto di frattura tra due monenti: la crisi della politica ed il suo ritorno. Laddove la politica non ha più gli strumenti per risolvere ragionevolmente l'antitesi interviene il conflitto che è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Ma la polemologia ci dice anche che questo vale per le guerre contro i nemici esterni, contro l'alterità la cui conclusione è un tentativo di ridefinire i rapporti di forza e ridisegnare egemonie. C’è una guerra però che non ha alcun elemento razionale: anzi, che è quasi totalmente irrazionale e priva di senso (non storico ma politico); una guerra che produce massacri e efferatezze più di ogni altra, che più spesso si priva di regole e limiti e che produce fratture spesso insanabili: è la guerra civile. Non la guerra contro l'altro da sé, ma quella contro di sé; quella che spesso non si conclude con un trattato di pace e con il ritorno del politico nella sua dimensione razionale. Ma quella che punta a eliminare l’avversario, a cancellare le pagine di storia che potrebberlo raccontarlo. Laddove non è riconosciuta l'alterità, il conflitto perde la sua dimensione di senso e diventa pura brutalità. Vorrei solo che si capisse che la cosa peggiore di cui abbiamo bisogno in questo momento è una "guerra civile" all’interno di Tocqueville e di ciò che esso rappresenta.
L’Anarca non riesce a vedere i cittadini di Tocqueville come altro da sé. Siano essi liberali, radicali, riformisti, laicisti… li vede come parte di un'identità politica che lui cerca, portando con sé la sua memoria, il suo percorso storico e la sua frantumata identità.

Il sogno fusionista non è solo un'architettura del pensiero. E’ un progetto di governo del Paese in grado di mettere insieme le migliori culture politiche moderne, di fronte allo sfracello di quell'imbroglio intellettuale che sono le frattaglie del cattocomunismo raccolte nel PD. Il sogno fusionista che i blogger di Tocqueville hanno inseguito in questi anni non merita la fine disonorevole di affogare nella melma dei rancori e delle polemiche politiche. Aspettiamo la quiete cercando di continuare a raccordare idee e intelligenze e stimolando la classe politica a riprendere il cammino lasciato. Tanto lì bisogna tornare prima o poi.
Al prossimo Tocqueville Party allora, con meno fucili... e con molte più idee.
Immagine: Pieter Bruegel, Banchetto nuziale, 1568

16 novembre 2007

il maiale leghista

Joachim Beuckelaer, Maiale squartato, 1569I leghisti sorprendono spesso per la capacità insolita di abbinare indecenza e stupidità. Oddio, non che nel panorama politico italiano l’abbinamento sia peculiarità del mondo leghista; il politico patetico che vuole portare la mummia di Lenin in Italia non è solo indecente nella sua necrofilia culturale ma testimonia quella scarsa capacità di leggere la storia, il passato, le dinamiche che hanno prodotto gli eventi, che per un politico corrisponde ad una chiara inettitudine.
Allo stesso modo, i leghisti che portano al guinzaglio un maiale su un terreno su cui a Padova il comune vorrebbe costruire una Moschea, ripercorrendo simili iniziative già fatte in altre città del nord e magari auspicando un "maiale-day", rappresentano concretamente l'incapacità di una parte della classe politica italiana di comprendere come la sfida moderna del "pluralismo religioso" richieda attenzione, cultura, capacità di analisi e forte sensibilità poiché tocca un elemento fondante dell'identità collettiva e dei bisogni individuali. Che poi un atto del genere venga stato fatto in nome della "identità italiana" offende la nostra sensibilità ancora un po' patriottica ma forse fa contenti i farlocconi che riempiono le ampolle con l'acqua del "dio Po". Sorprende che nessun leader del centro-destra abbia espresso disgusto per un gesto così cretino.
L'idiozia leghista ci dà però spunto per riflettere su come pensare un nuovo modello di laicità dello Stato che oggi si configura su due livelli: la sfida del pluralismo religioso e il ritorno della religione nella sua dimensione pubblica.
Quando i talebani del laicismo nostrano inveiscono contro la Chiesa e il suo sacrosanto diritto e dovere di essere parte integrante della vita pubblica del Paese, noi ci arrabbiamo non poco perché abbiamo la sensazione dell'ipocrisia dogmatica che è alla base di questo ragionamento. Tutt'altro che laicità. E ci incazziamo ancora di più quando questo invito alla Chiesa a pensare alle cose di Dio, viene dal cialtronesco intellettualismo dei cattolici adulti (come se l'uomo-nella-storia non fosse stato l'interesse peculiare di quel Dio che nella storia si è incarnato facendosi appunto uomo).
Allo stesso tempo occorre pensare un nuovo rapporto con la pluralità religiosa e con l'inevitabile necessità di far convivere culture e fedi diverse, senza l'ingenuità suicida di un Occidente ubriacato dalla sbronza multiculturalista.
Alla base dev'esserci la comprensione dell'errore culturale e filosofico che fondò la presunta laicità della Rivoluzione francese ereditata in buona parte dalle carte costituzionali europee e sopratutto fatta propria da quell'aborto di Costituzione europea che i tecnocrati di Bruxelles hanno imposto contro le stesse volontà popolari. Un errore storico che segna un abisso profondo tra il modo di concepire la libertà religiosa in Europa e negli Usa.
Jürgen Habermas sottolinea come l'approccio alla libertà religiosa richieda la neutralità di uno Stato che configuri questa libertà non in maniera negativa, come nella Francia giacobina dove la libertà era una libertà dalla religione, imposta sotto forma di intromissione autoritaria dello Stato, ma come libertà positiva, come fu pensata dall'origine negli Stati Uniti dove l'autorità statale era "destinata a garantire ai coloni che si erano lasciati l’Europa alle spalle, la libertà positiva di praticare la loro rispettiva religione senza impedimenti" e senza maiali leghisti. Così fu pensata già nel 1776 nel Bill of Rights della Viriginia (che fu modello di riferimento per tutti gli stati americani) in quell'articolo 16 in cui si dice esplicitamente che la pratica religiosa "can be directed only by reason and conviction, not by force or violence; and therefore all men are equally entitled to the free exercise of religion, according to the dictates of conscience". Una conquista civile attuale ancora oggi.
Rifondare un nuovo patto di convivenza civile dentro la cornice di una moderna laicità, nel quale a tutti sia chiesto ed imposto il rispetto delle leggi e delle regole non può prescindere dal riconoscimento della libertà religiosa e dei diritti ad essa legati; questo vale per il diritto della maggioranza cattolica e della Chiesa ad essere parte attiva nel dibattito pubblico e nell'impegno civile; e questo vale per il rispetto all'identità religiosa delle minoranze e la loro tutela. Non la benevolenza tollerante del multiculturalismo, ma un nuovo modello di cittadinanza che contempli regole condivise e certe. E' bene che il pensiero liberal-conservatore, laico e cattolico, identitario e federalista, semmai c'è ed è in grado di comprendere questa nuova sfida post-moderna, se ne faccia carico e lasci stare le "porcate" provocatorie.
Il maiale leghista, nella sua negazione di riconoscere il fondamentale diritto alla libertà religiosa è intrinsecamente giacobino. E tutto questo a noi "intrinsecamente vandeani" non è che piaccia molto…
Immagine: Joachim Beuckelaer, Maiale squartato, 1569

08 novembre 2007

barbari e mura

Alessandro Algardi, Papa Leone ferma Attila, 1653Ci sono cose che accadono nelle quali è difficile non leggerci un senso, un significato al di sotto dello strato più superficiale. E’ come se la storia, anche nei suoi più piccoli e insignificanti avvenimenti, vivesse dentro una miriade di intrecci, di nodi da dipanare, passaggi segreti da scoprire sotto lo scorrere del tutto. Se il gioco si accetta il mondo diventa più poetico e divertente; sennò va bene lo stesso e ci si linka al noioso e conformista spirito del tempo, uguale a se stesso nel succedersi casuale delle cose. E questo gioco è più intrigante quando l’attenzione di tutti è spostata altrove, sugli eventi più grandi, quelli che spesso sono i più drammatici. E così, nei giorni successivi alla morte della povera signora Reggiani, quando Roma e l’opinione pubblica si sono svegliati dal lungo sogno buonista e hanno scoperto la città che nessuno aveva voluto vedere in questi anni, quella fatta di baraccopoli, di degrado, di emarginazione e di violenza, una notizia passata in assoluto silenzio, ha colpito noi, falliti archeologi di una giovinezza sprecata tra stratigrafie e sbancamenti di argille paleolitiche. Quindici metri di mura Aureliane sono crollate come un castello di carta: sbriciolate dal tempo, dall’incuria e dalla sfiga che finalmente ha colpito l’arroganza veltroniana, destandola dal sogno viziato di una passeggiata sul tappeto rosso della sua vergogna.
Se accettassimo l'idea che i fatti sono solo frutto di casualità non dedicheremmo un post a questo evento. Se invece ci convinciamo che bisogna provare a leggere il segno che lega gli avvenimenti, ecco che tutto prende un’altra forma; e allora rintracciamo il vero motivo per cui le mura Aureliane sono cadute proprio ora, con le prime piogge, con le infiltrazioni e con l’ondata di degrado e violenza che improvvisamente Roma ha scoperto. Un’amara ironia accompagna i segni; come a dire che in una città dove una donna viene ammazzata per essere rientrata tardi la sera, dove un pensionato viene ucciso a sprangate mentre passeggia in bicicletta e una ragazza muore per essere scesa alla fermata della metro sbagliata, quelle mura sono ormai inutili. La cinta muraria che l’imperatore Aureliano costruì alla fine del 200 d.C. per difendere Roma dai barbari e che per secoli l’ha continuata a tenere dentro un abbraccio simbolico e protetto, ora non serve più. Nella Roma del new emperor, i barbari ormai sono tra noi...


Immagine: Alessandro Algardi, Papa Leone ferma Attila, 1653

05 novembre 2007

gli uffici comunali di prodi e quelli di veltroni. Un giallo politico

Ieri chi leggeva Repubblica si trovava in prima pagina questa letterina firmata da Romano Prodi che era meglio di un dvd di Aldo, Giovanni e Giacomo. Sembrava una cosa talmente surreale che all’inizio l’Anarca ha pensato: "cavolo che scherzo gli hanno tirato quelli di Repubblica. Prenderlo per il culo così non è bello, è pur sempre il premier!". Poi se la rileggevi capivi che non era uno scherzo: il capo del Governo di uno dei paesi del G8 aveva scritto una letterina da libro Cuore e l'aveva inviata al principale quotidiano italiano per descrivere com'era bella la vita dell'Italia multietnica da lui governata. Una sitcom girata dentro un ufficio comunale di Bologna: la famigliola dello Sri Lanka, il pensionato, l'impiegata efficiente, i giovani speranzosi, mancava l’omosessuale di turno gentile e sensibile (immancabile nelle fiction che si rispettino) e la sceneggiatura era pronta. In realtà questa lettera appare così cretina e offensiva nei confronti dei cittadini che quotidianamente lottano con le disfunzioni dell’amministrazione pubblica e con i problemi dell'emarginazione e dell'integrazione, che stentiamo a credere che l'abbia scritta Romano Prodi. Magari l'avrà buttata giù il suo ghostwriter… visto che Prodi con i fantasmi ha una certa dimestichezza.
Sulla lettera non c'è molto da aggiungere a quello che Mario Giordano ha scritto su Il Giornale.
Il bello è che il giorno prima, sempre La Repubblica, aveva ospitato in cronaca questo articolo di Gabriele Romagnoli sulla follia di un giorno qualsiasi in uno degli uffici anagrafe del Comune di Roma, dove nel feriale a cavallo di due feste, su 5 impiegati del comune, 1 era in ferie e 4 in malattia; un record ma neanche tanto nella Roma veltroniana dei 30.000 impiegati comunali.
E chi è rimasto in fila a riannodare i propri problemi di sopravvivenza, con il telefonino in mano a cercare di chiamare la redazione di Striscia la Notizia o quella di Report, ha mostrato una rassegnazione che è più di una rabbia.
Il problema è che dopo che hai letto i due articoli, non capisci più quale sia l'Italia vera: quella colorata e arcobaleno descritta da Prodi o quella grigia e esasperata descritta dal malcapitato giornalista di Repubblica; quella reale che sperimentiamo ogni giorno noi o quella bugiarda che racconta Prodi; quella che funziona (forse) a Bologna o quella che non funziona a Roma; quella efficiente di Cofferati o quella furbona e mascalzoncella di Veltroni.

Insomma, un po' di casino questi due racconti te lo creano. Se non altro perche potresti risolvere la questione immaginando che le due Italie convivano; ma se è cosi perché non fare leader del futuro Cofferati al posto di Veltroni?
No, in realta abbiamo capito tutto, noi che siamo intelligenti. Attingiamo alla dietrologia sempre comoda in politica e proviamo a dare a Prodi una maggiore dignità di quanto mostra quella lettera cretina e a Veltroni un'innocenza immeritata: la lettera di Prodi s'inscrive nell'annosa querelle del PD, nel conflitto aperto tra il premier e l'uomo nuovo. Mettiamola cosi: Prodi ha scritto questa letterina, descrivendo l'idilliaco ufficio comunale di Bologna, per sputtanare gli inefficienti uffici comunali di Roma e dimostrare come il modello veltroniano sia un imbroglio. Ma non funziona neanche questo perché così facendo saremmo generosi verso l'intelligenza di Prodi e ingenerosi verso "il modello Roma" di Veltroni che è qualcosa di molto peggio di un imbroglio…

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04 novembre 2007

walter e liga

Siccome loro sono buoni, tolleranti, pluralisti, solidali, arcobaleni, fiaccolanti, accoglienti, indignanti, multiculturali, antirazzisti, antileghisti, antifascisti, democratici, intransigenti, determinati ma con cautela, riflessivi e soprattutto responsabili... siccome loro sono tutte queste cose e molte di più, loro si possono permettere di dire cazzate come queste: ''Prima dell'ingresso della Romania nell'Unione europea, Roma era la città più sicura del mondo" (Walter Veltroni commentando l’aggressione della donna a Tor di Quinto).
E' naturale che dopo affermazioni così articolate, profonde e responsabili, qualcuno altrettanto articolato, profondo e responsabile arrivi a pensare che basterebbe togliersi dalle palle un po' di romeni per tornare ad essere la "città piu sicura del mondo". E infatti: "Spedizione punitiva contro romeni; quattro feriti di cui uno grave. In dieci con bastoni e a volto coperto" .
Ma siccome il culo abbonda sulla faccia dei furboni, è normale che gli stessi che avevano dichiarato le cose di cui sopra, poi dicano questo: "Esprimo la mia condanna più grande per quanto avvenuto. In un momento come questo occorre la più grande responsabilità da parte di tutti" (lo stesso Walter Veltroni di sopra). Appunto.
E infine, poiché i furboni hanno in genere una faccia molto grande, il giorno dopo riescono persino a dirci che la colpa della xenofobia emergente è "delle parole incendiarie dei capi della CdL" (sempre l'identico Walter Veltroni su Repubblica).
E allora, se tutto va bene, se è solo strumentalizzazione... perché ai funerali della signora Reggiani, con il classico coraggio che li contraddistingue ed una scortesia formale di non poco conto, dopo essersi fatti fotografare contriti e lacrimevoli, i furboni con le facce da sindaco di Roma sono usciti di nascosto da una porta secondaria?
Mah! A noi che siamo degli sciagurati irresponsabili non ci resta che ascoltare Ligabue:
"A parte che ancora vomito per quello che riescono a dire
Non so se son peggio le balle oppure le facce che riescono a fare
Niente paura, niente paura…"

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