29 gennaio 2007

l'identità della sinistra

Il ministro Melandri è politico di razza e donna di raffinata cultura. Qualche giorno fa alla richiesta dei giornalisti di commentare i dissensi all’interno del governo sulla questione della base Usa di Vicenza, ha risposto: "non voglio aggiungere entropia nel dibattito (Ansa del 22 gennaio)". Un modo elegante per dire che il governo di cui lei fa parte tende al disordine irreversibile, al casino ingestibile; e se la termodinamica può servire a spiegare la politica italiana, la Melandri non ha neanche la speranza che arrivi un Prigogine qualsiasi a riportare un po' d'ordine con qualche sistema dissipativo.
Entropia. Uno impazzisce a pensare che un politico possa parlare così e s'immagina il metalmeccanico della Fiat, il disoccupato di Napoli, lo studentello del Mamiani o del Parini annuire alle dichiarazioni del ministro e poi di soppiatto sfogliare nervosamente lo Zingarelli. Forse ha ragione Berlusconi: la sinistra parla all'elite intellettuale, la destra alla gente. Non che questo sia sempre un merito ma perlomeno la destra riesce a farsi capire… anche troppo.
Se il lessico politico della sinistra naufraga nel secondo principio della termodinamica, quello della destra è già naufragato nella definizione anatomica di chi votava a sinistra, fatta dal Cavaliere in campagna elettorale. Perché, per quanta fantasia uno ci possa mettere, non riesce proprio a immaginare quella frase detta così: "ho troppa stima per l’intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti testicoli atti a produrre spermatozoi e testosterone, che possano votare facendo il proprio disinteresse". No, per Berlusconi un coglione è un coglione e il casino non è entropia... è casino.
Se la volgarità è presa diretta sulla gente ha il limite ovvio di ogni volgarità. Ma, nello stesso tempo, l'intellettualismo della sinistra, a volte più volgare della parolaccia, ha il limite di far credere che il paese reale sia quello delle redazioni dei giornali, degli studi televisivi, dei salotti finanziari, delle signore "cool" dei premi letterari. Non consente di comprendere che se c’è una spaccatura tra società civile e classe politica, ancora più profondo è il baratro che divide il paese reale dalla sua classe intellettuale spesso più indecente di quella politica.
Alla fine l'identità della destra sembra più chiara... un po' volgarotta forse, ma chiara. Mentre l'identità della sinistra è ancora confusa, sbiadita; e non solo perché c'è ancora da capire se sotto sotto ci trovi più Kennedy o Fidel, se funziona mettere insieme Ghandi con De Gasperi. No, il problema è alla radice: l'identità della sinistra italiana, senza Berlusconi, rimane una tensione irrisolta tra l'entropia e i coglioni.

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23 gennaio 2007

Martini, ovvero la Chiesa che non dice nulla...

Ogni volta che leggo qualcosa del card. Martini ringrazio lo Spirito Santo di aver vegliato instancabile in quei giorni di conclave di un Aprile in cui tutti ci sentivamo un po’ più soli; lo ringrazio di aver albergato nel cuore di quei santi uomini riuniti e di averli illuminati della Sapienza, così da evitare che ci capitasse Papa uno come Martini.
Io e Welby e la morte,
l’articolo che l’anziano prelato ha pubblicato domenica sul Sole 24Ore, colpisce non per ciò che dice ma per quello che non dice, come quasi tutte le cose che Martini scrive. Quelle colonne sono piene di vuoto. Un vuoto tanto più drammatico e pericoloso perché proviene da un uomo di Chiesa che sa che quel vuoto verrà riempito da interpretazioni arbitrarie e contraddittorie. In quel vuoto c’è l’assenza di una parola ferma che agganci la dottrina ad una interpretazione chiara, priva di fraintendimenti. In quel vuoto c’è il solito, noioso gioco del sottinteso con cui la Chiesa debole prova a dialogare con il mondo sperando di accattivarsi la sua simpatia. Ma un pastore non deve lasciare spazio ai sottintesi ma rivendicare il valore di un’antropologia cristiana che dovrebbe essere premessa ad ogni riflessione. Il card. Martini se la dimentica spesso come fosse un surplus da omettere. Applica un principio di “finanza creativa” all’etica (tolgo di qua, ometto di là) in modo tale che alla fine il bilancio quadri e lo spirito del tempo dei suoi interlocutori ne esca soddisfatto. È il paradosso sta proprio qui: Martini, nel suo articolo, in realtà non lascia spazio all’eutanasia e non critica la decisione della Curia romana di negare i funerali religiosi a Welby. Eppure l’intero mondo laico e progressista lo interpreta così; interpreta le sue affermazioni come aperture ad un pensiero che non è della Chiesa. E questa ambiguità è il segno di un errore che è profondo e radicato nella cultura cattolica progressista: l’errore di fondare il dialogo sulla necessità di farsi accettare, di farsi piacere a tutti i costi evitando di affermare i punti di partenza di una verità che per un cristiano sono irrinunciabili.
Ma il rischio di questo gioco oggi è grande per questo la Chiesa sta cambiando la sua strategia
come ricorda mons. Ravasi: "Viviamo il tempo dell’amoralità. Fino a qualche anno fa l’atteggiamento era: “Seminiamo e qualcosa resterà”. Oggi il seme si disperde, l'operazione che si sta facendo è fendere la nebbia dell’amoralità con luci forti. (...) Non è più tempo soltanto di verità penultime, come l'impegno sociale, ma di annunciare le verità ultime, capitali, decisive e discriminanti: vita e morte, bene e male, giusto e ingiusto, amore e sesso. In questi casi qualche volta anche l'urlato, l'uscita con la punta, per tagliare la mucillagine, è fondamentale. Cosa che non si fa, nemmeno all'interno della Chiesa stessa. Il rischio è sempre che la nebbia ci avvolga”. Già il rischio è quello e il card. Martini è ormai un uomo della nebbia. Le sue parole e i suoi scritti emanano luci opache, toni grigi che si confondono con il mondo, che non orientano.
C’è una parte della Chiesa che ha paura di rompere con lo spirito del tempo; che vuole farsi accettare e amare da tutti; che confonde il dialogo con l’equivoco dei punti di partenza. L’articolo di Martini è emblematico di questa confusione. Martini sa che il suo richiamo all’accanimento terapeutico in riferimento al caso Welby è improprio e ambiguo poiché lo stesso Consiglio Superiore di Sanità,
nel parere del 20 dicembre 2006,
ha affermato che il trattamento cui Welby era sottoposto non configurava il profilo dell’accanimento terapeutico.
Martini sa che il principio dell’autodeterminazione del paziente in bioetica è un principio ristretto che si limita al consenso consapevole dell’atto medico.
Martini sa che per la Chiesa il confine tra una possibile "limitazione dei trattamenti" e l’abbandono terapeutico è un confine labile (come ha ricordato Ruini nella sua
prolusione) e che rischia di legittimare quella cultura necrofila che vuole la morte come unica soluzione alle malattie degenerative e invalidanti. Per questo quell'articolo è uno sbaglio, perché non affronta questi aspetti.
La Chiesa progressista, quella di Martini e di Tettamanzi, quella dei focolarini e della comunità di S.Egidio, quella dei boy scouts con le bandierine arcobaleno e dei teo-dem che mescolano "parrhesia" e ignoranza, è la Chiesa che non vuole capire che per un credente i dilemmi etici non sono incidenti di percorso ma sono il limite e la misura che danno valore alla domanda di senso. Per la cultura laica, definita tra libero arbitrio e progressismo scientifico, il dubbio etico spesso è solo un rallentamento, un inutile ostacolo che la libertà individuale deve provvedere a rimuovere. Lo scientismo (non la scienza ma l’ideologia della scienza) è dogmatico come la religione; si basa anch’esso su un antropologia di partenza che però è esattamente l’opposto di quella cristiana.
La Chiesa di Martini è la Chiesa che piace molto agli intellettuali, ai salotti del capitalismo laico e a quelli radical chic; ma è anche la Chiesa che non piace al popolo di Dio che forse, dai suoi pastori, non si aspetta la nebbia… ma qualche luce forte. Gorge Weigel nel suo libro su Benedetto XVI, ricorda i funerali di Don Giussani a Milano, il 22 febbraio 2005. Giovanni Paolo II volle che fosse Joseph Ratzinger a celebrarli. L’omelia di Ratzinger cominciò così: “Don Giussani era cresciuto in una casa povera di pane, ma riccca di musica e così fin dall’inizio fu toccato, anzi ferito, dal desiderio di bellezza (…) e così trovò Cristo”. L’omelia di Ratzinger durò 20 minuti e alla fine fu accolta da “un’intensa standig ovation di migliaia e migliaia di ragazzi, ragazze, uomini e donne. Poi finita la messa “il cardinale Tettamanzi si alzò per pronunciare alcune parole di commiato e quando finì ci fu silenzio nel duomo”. Il freddo “pastore tedesco” aveva entusiasmato la folla; il cardinale progressista e benvoluto dagli intellettuali laici, l’aveva lasciata indifferente. Una Chiesa che parla senza dire nulla e in quel nulla lascia spazio a tutto, sarebbe meglio stesse in silenzio.
Giacomo Biffi, uno di quei cardinali che non scrive sul Il Sole 24Ore né su Repubblica e che non gli importa di piacere al mondo, ha pubblicato un libro straordinario: “Contro Maestro Ciliegia”, una lettura teologica della favola di Pinocchio carica di umorismo e di ironia. Biffi ricorda che il cristiano, come Pinocchio, è un “disadattato del mondo” e che la Chiesa, come la fata turchina, è una realtà “inaudita” perché “la più viva preoccupazione della Chiesa non deve essere quella di rendersi più credibile – cioè più conforme alla mentalità e alle attese degli uomini- ma al contrario di mantenersi «incredibile», perché solo così può essere riconosciuta come Chiesa e suscitare la fede”.
Chissà se il cardinale Martini ha mai letto la favola di Pinocchio…
update: il commento migliore all'articolo del card. Martini l'ho trovato qui, in 3 righe

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17 gennaio 2007

se il problema della sinistra è... la sinistra.

Doveva essere la nuova primavera del Paese, così ci avevano detto quella sera a piazza SS. Apostoli. Dopo neanche un anno la primavera è diventata "l’inverno del nostro scontento" per dirla con Nicola Rossi. Non che noi ci avessimo creduto molto: rondini quella sera non se ne vedevano, qualche beccaccia si ma se una rondine non fa primavera figurarsi le beccacce. Ma questo salto improvviso dalla primavera all’inverno, senza neanche un giorno d'estate per farsi un bagno nel mare proletario di Capalbio o di Sabaudia, ha sorpreso anche noi.
Prima quella storia della Fase 1 che doveva diventare
Fase 2. Ci avevamo sperato, avevamo pensato: "finalmente hanno capito che razza di boiata hanno fatto!"; invece alla fine tratta di qua, rimangia di là, traccheggia di sopra, boccheggia di sotto, la Fase 1 è diventata una Fase 1bis ''Dobbiamo contrastare la caricatura giornalistica della fase 2: non è stata pensata in alternativa alla fase 1 ma per consolidarla'' (Piero Fassino, Asca del 9 gennaio 2007). Eppoi, siccome le parole di un leader sono certezze granitiche, sette giorni dopo a Porta a Porta, lo stesso Fassino ha detto: "io penso che da Caserta sia uscita la fase 2". Nel frattempo mentre Fassino sta ancora cercando di sciogliere l’enigma, i centristi di Formiche scrivono che bisogna passare dal Piano A al Piano B: “è il momento in cui è necessario mettere in campo uno sforzo di fantasia e, se c'è coraggio, un piano B. Il piano A finirà infatti per portare ad esiti imprevedibili e incontrollabili, del tutto opposti a quelli desiderati”. Insomma dal piano A al piano B nella speranza di non finire al piano terra perché poi si deve scendere, il tutto incrociando la fase 1 che, dopo una breve fase 1bis, ha portato alla fase 2 del dopo Caserta. Chiaro no? Talmente chiaro che Nicola Rossi ha capito tutto e si è infilato cappotto e cappello e se ne è andato sbattendo la porta. Anzi no, l’ha lasciata un po' socchiusa sperando che qualcuno lo seguisse e così è stato; Franco De Benedetti ha detto che "rinnovare la tessera dopo la prova non esaltante di Rutelli e Fassino a Caserta sarebbe ridicolo". Peppino Calderola ha fatto di peggio: è rimasto ma si è arreso e, giusto per non fare male a nessuno, ci ha scritto sopra un articolo per il Corriere della Sera così che la cosa rimanesse tra pochi.
E il problema dei DS si è allargato al Partito Democratico: la Bresso non è d'accordo sull'impostazione culturale; Fabio Mussi mena fendenti con la mano sinistra (
l'idea del partito democratico è un'idea manifestamente fallita, che procede per inerzia"), Cacciari risponde con la destra ("Questo PD è solo un contenitore"). E quando Repubblica svela la prima bozza del manifesto del futuro PD, dal giornale di De Benedetti (il finanziere non il politico, quello che il futuro Partito Democratico lo avrebbe già comprato) ci si aspetterebbe toni trionfalistici, entusiasmi, enfasi di sorta… e invece l’articolo sembra già un necrologio.
Insomma se i Ds
"evaporano", come dice Mussi,
il Partito Democratico "fa acqua da tutte le parti" come dice Gavino Angius; manca che "la casa brucia" e "il progetto sta a terra" e i 4 elementi dell’universo ce li abbiamo tutti. La sinistra italiana da europeista diventa presocratica.
In questo frullatore, quello che continua a fare la figura del pirla è sempre il povero Fassino (forse il meno peggio ed il più onesto); è lui che si sacrifica e prende schiaffi. Gli altri lo mandano avanti e gli ridono dietro: uno fa finta di parlare al telefono con Condoleezza. Un altro manda lettere inutili a Repubblica.
Un terzo fa finta di fare il sindaco di Roma e nel frattempo tesse una ragnatela degna di Shelob.
Forse ha ragione il prof. Pasquino quando dice che "ci sono molti leader nel centro sinistra ma non c’e vera leadership cioè capacità di mediare, di guidare e decidere". O forse il problema è che la sinistra italiana, per diventare veramente riformista, dovrebbe smettere di essere la sinistra italiana: quella straordinaria sinistra che ha fatto la storia d’Italia, la resistenza, la lotta di liberazione (con qualche piccolo eccesso in Emilia e in Toscana, che l'Iraq di oggi sembra un luogo di educande); quella straordinaria sinistra che ha guidato il movimento operaio con un occhio sempre ai padroni, che ha cavalcato la guerra fredda a suon di rubli, che ha inventato l’imbroglio dell’eurocomunismo, che ha governato dietro le quinte il giustizialismo di mani pulite azzerando l’unico vero riformismo che a sinistra si era prodotto in 30 anni… quello craxiano. Ma sopratutto la sinistra che ha costruito, unica in Europa, il sistema di potere clientelare, parassitario, economico-finanziario più forte: quello dei sindacati e delle cooperative. Sistema di potere che ovviamente è anche base di consenso e di voto e quindi, per ora, irrinunciabile.
Perché la questione sta tutta lì, oltre le lenzuolate di Bersani. Quando Sergio Chiamparino dice
"quello che ha fatto Gonzales dopo la caduta di Franco e quello che ha fatto Blair dopo la Tatcher assomigliano più o meno a come io immagino e sogno la nascita del Partito Democratico in Italia", fa un'analisi giusta e corretta su come alcune sinistre europee sono diventate moderne. Ma il problema italiano è un altro. Ve lo immaginate voi Felipe Gonzáles al telefono con el señor Consorte dire: "¿tenemos un banco?".

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12 gennaio 2007

la strage di Erba e il mio demone...

Lo sapevo che sarebbe andata così. Che è troppo facile star lì a teorizzare, a giocare con il pensiero, a citare Dostoevskji immaginandosi tra Caino e Abele…ché poi alla fine la realtà ti dà uno schiaffone e ti sveglia.
"È vero, ci pensavamo da tanto tempo. Non ne potevamo più da anni di quelli lì, non si poteva andare avanti. Siamo stati noi"...
Ora lo so che è tutto surreale. Come un quadro di Max Ernst. Visioni terrifiche, controsensi colorati cha spazzano la razionalità. Ora lo so che può essere vera quella storia della “banalità del male”… anche senza leggere la Arendt, perché il male esiste e a volte ci abita al piano di sotto.
"Abbiamo parcheggiato la macchina nello spiazzo dietro casa, che era meglio. Il cancello del cortile fa rumore e quando si apre si accendono le luci"...
Ora lo so che divorerò la cronaca, i particolari più scabrosi mi attireranno e la curiosità e il sadismo si abbracceranno dentro il mio quieto vivere; e che dovrei spegnere la tv, accartocciare i giornali ma sono troppo vigliacco per resistere alle tentazoni ed ogni rinuncia è un atto di coraggio che io non ho.
"Indossavamo doppi guanti per non lasciare impronte. Siamo saliti fino al primo piano, poi abbiamo suonato al campanello"...
Ora lo so che il criminologo ci spiegherà il perché, il politico farà la fiaccolata senza porsi il perché, l’intellettuale sparerà le solite cazzate sul disagio sociale, sull’emarginazione, sulla crisi dei valori, sull’egoismo, sul razzismo, sulla provincia ricca e vuota, su quella povera e vuota ugualmente… come avrebbe detto Céline: “fatalismo gonfiato di parole, sonorità dell’impotenza”.
"Appena Raffaella ha aperto l’ho colpita alla testa col martinetto"...
E mentre c'è un padre e marito che concede il perdono, c’è un altro padre e marito che vuole vendetta. E tu inizi a credere che la giustizia sia una grande cazzata sopratutto quando il diritto si traveste da morale… perché ci sono casi in cui solo la vendetta sembra essere un atto di giustizia.
"Quando Raffaella è caduta ho colpito sua madre"...
Ora lo so che io come un cretino rimarrò qui attonito con un misto di amaro, di angoscia, di tristezza, di orrore… con le penombre che si aggirano e corrono vorticose dentro la mia paura perché la musica sale, la tensione è al culmine e i vostri bei discorsi? Puah! Le vostre moratorie?... Ingogliatele! Lasciate un po' di spazio anche alla mia vergogna…
"Piangeva, quel bambino, strillava come un matto. Prima o poi qualcuno sarebbe venuto a vedere”...
Lo sapevo che il demone prima o poi si sarebbe riaffacciato e avrebbe bussato alla mia porta. E non posso far finta di non essere in casa… mi ha visto entrare il maledetto, ha visto le luci accese. Sa che ora ci sono… e che forse lo aspetto…
“Mentre mio marito era di là con loro due io ho ammazzato il bambino. L’ho ucciso con una coltellata, alla gola”...
Lo sapevo. Il mio demone è astuto; mi porta la domanda su un piatto d’argento e io non so rifiutarla: tutto quello che credo e penso sulla pena di morte, sulla dignità umana, sul riscatto, la responsabilità, sull’etica della possibilità che ad ogni uomo va concessa… tutto questo si fotta! Il mio demone ha vinto perché il dubbio che mi ha offerto è più di un’inquietudine… perché mi trascina a pensare a chi amo, perché m'insidia la paura, perché il mio demone è infido e sa quel che vuole e il solo dubbio che ghignando mi regala è già la sua vittoria.
Alla fine cedo e vergognandomi mi domando: perché a due bestie così dovremmo concedere il privilegio di vivere?...

Immagine: Max Ernst, l'Angelo del focolare, 1937

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08 gennaio 2007

io tra Caino e Abele

Che nessuno tocchi Caino… ok, ok…. mi avete convinto! Nessuno si azzardi a toccarlo quello stronzo di Caino. E non perché sennò Pannella ricomincia con il solito sciopero della fame, della sete, del sonno, del respiro…no; ma perché chi tocca Caino diventa anche lui un Caino. Mi avete convinto e non voglio diventare come lui. Non ora almeno. Non in questo Occidente stanco e morente che vive nascosto nei suoi sensi di colpa perché è incapace di leggere la storia, il suo divenire e la tragicità che ci abita. E senza scomodare Cesare Beccaria, io lo so che la pena di morte “non è utile, né necessaria” ma è un arbitrio; e che sotto quella ghigliottina scintillante, seduta su una comoda sedia elettrica o davanti a un plotone d’esecuzione, l’umanità si arresta e il giudizio tra ciò che è bene e ciò che è male viene sospeso.
Io amo Dostoevskij e la sua capacità di andare a fondo come un sasso dentro la realtà; anche Dostoevskji fu condannato a morte e poi graziato davanti al plotone d’esecuzione. Il principe Myskin, il suo Idiota, racconta che l’orrore della pena capitale è nella certezza di non poter sfuggire a quel destino, la fine di ogni speranza. “Conducete un soldato davanti ad un cannone, collocatelo lì e tirategli addosso: continuerà a sperare; ma leggete a questo stesso soldato la sentenza che lo condanna con certezza, ed impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire? Perché un affronto simile, mostruoso, inutile, vano? Forse esiste un uomo al quale hanno letto la sentenza, hanno lasciato il tempo di torturarsi e poi hanno detto «va’, sei graziato». Ecco un uomo simile forse potrebbe raccontarlo”. Quest’uomo era lui.
Eppure c’è una parte peggiore di me che non mi lascia libero; la parte che non ne vuole sapere di entrare nel club degli uomini illuminati… dalla ragione e dal cuore. Quella parte peggiore di me che vuole rimanere al buio del suo vim-dicare e che delle luci accese al Colosseo se ne sbatte altamente. E’ il mio demone terribile che non pensa a Beccaria ma a Kant: “la pena di morte è un imperativo categorico”. Che pensa al macellaio di Erba e di fronte ad uno che sgozza un bimbo di due anni e massacra a coltellate mamma, nonna e vicina di casa non riesce proprio a cercare motivazioni sociologiche, non riesce ad arrestare il proprio disprezzo e il proprio odio perché se non c’è un limite all’orrore ci dev’essere un limite al perdono.
Può essere mai compresa, oltre la pietà, una condanna a morte? Provo a fermare le emozioni e a riguardare l’immagine di Saddam davanti al nodo scorsoio, sforzandomi di rileggere la storia. Provo a trovare un senso all’orrore dicendomi che quel Caino lì non era un povero nero del Tennessee processato da un giudice del Ku Klux Klan. No. Quel tizio è stato uno spietato aguzzino; uno che non ha esitato a gasare migliaia di donne e bambini, a ordinare massacri, torture, processi sommari; uno che ha messo in piedi una delle più terribili macchine repressive che questo scorcio di tempo abbia conosciuto. Poi, a riflettere bene ti accorgi che il vero scandalo dell’esecuzione di Saddam non sta nell’esecuzione in sé. Sta in quel film dell’orrore che ha sconvolto le nostre coscienze. Nell’antro del castello in cui era ambientato, in quegli orchi con i cappucci neri. Sta in quello sguardo perso nel vuoto… perché noi non siamo Hemingway
e a noi, gli occhi di un uomo che muore, fanno ancora terrore. O forse perché stiamo lontani dai luoghi dell’orrore, fuori contesto e davanti alla tv, seduti nel salotto di casa, quegli occhi sgranati sembrano figli di un terrore ancora più grande. Perché se Saddam l’avessero impiccato in silenzio, senza telecamere, senza dirette, senza Skynews24 che annunciava l'eurovisione come fosse la finale dei mondiali, senza telefonini, urla, e ce lo avessero fatto trovare bello e composto dentro un bel sudario… forse ben pochi, nel mondo libero dell’Occidente umanitario, si sarebbero scandalizzati.
Perché questo Occidente arcobaleno è, diciamocelo con franchezza, un po’ schizofrenico. Perché tutti i Caino sono uguali ma qualcuno è meno uguale degli altri. Perché se un legittimo tribunale manda a morte un feroce dittatore dopo un processo avvenuto sotto gli occhi di tutto il mondo, garantendo all’imputato un collegio di difesa internazionale e quelle garanzie che lui ha sempre negato agli altri, noi alziamo lo sdegno del nostro umanitarismo. Se invece Fidel fa fucilare due disperati che provano a scappare da Cuba i nostri intellettuali e i nostri politici più buoni fischiettano girandosi dall’altra parte e le fiaccolate sotto il Colosseo col cavolo che si fanno.
Io però lo so che Caino non si tocca. Non mi spiego bene il perché e le stronzate sociologiche non mi convincono; non m’interessa se anche Abele ha avuto le sue colpe con quell’aria da primo della classe. E magari anche Adamo ed Eva, se lo facevano stare di meno davanti alla tv, se lo coccolavano di più, se lo mandavano a scuola, forse Caino non sarebbe diventato Caino. E anche il Padreterno se invece di trovargli un lavoro da contadino lo faceva sindacalista al massimo avrebbe fatto uno sciopero contro Abele. Ma questa storia che se Caino è Caino la società ha le sue colpe non mi convince. Perché la responsabilità personale è la misura della libertà; ed è il libero arbitrio che fa di Caino un essere diverso dal mio cane che non potrebbe barattare il suo istinto con la mia libertà.
Eppure rimango convinto che Caino non si debba toccare... qualcosa me lo ordina da dentro... con tanti se e tanti ma.
Ma va bene. Che Caino non si tocchi! Illuminiamo a giorno il Colosseo ché il buon sindaco di Roma ha detto che : “da qualche anno questo è un posto simbolo di pace e riconciliazione”, dimenticando che da qualche secolo prima di lui, lì davanti al Colosseo i papi celebrano la via Crucis… e quel cammino di sofferenza fino al Golgota, sotto il peso della Croce è il simbolo da sempre dell’innocente assassinato, sacrificato al patibolo della storia, per redimere col suo sangue la follia del mondo. Perché è quella croce che oggi ci fa comprendere il senso dell’essere uomini; il senso umano non solo religioso. Quel patibolo con quell’uomo appeso ci regala il limite e la grandezza delle umane cose e di ogni singolo uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio e per questo inviolabile.
E condivido quello che Veltroni dice: "la pena di morte: la più odiosa e inumana delle pratiche di Stato che stravolge il diritto e trasforma la giustizia in una inaccettabile quanto inutile vendetta”.
Ma la parte migliore di me, quella che si convince talmente che la vita è sacra, vorrebbe che queste belle parole venissero dedicate anche a quell’altra pena di morte; quella di cui nessuno parla. Quella per cui l’Occidente non chiederà mai moratorie. Quella che ogni anno produce oltre 50 milioni di esecuzioni. Quella pena di morte che si chiama “aborto”. E mi piacerebbe ritrovarmi un giorno sotto il Colosseo illuminato, con i politici buoni a dire anche questo: “l’aborto legalizzato: la più odiosa e inumana delle pratiche di Stato che stravolge il diritto e trasforma la libertà della donna in un inaccettabile quanto inutile arbitrio”.
La parte migliore di me che pensa che in fondo anche a Caino dev'essere data una possibilità, si domanda perché non debba essere data ad Abele. Perché se la pena di morte contro Caino ci fa orrore… la pena di morte contro Abele dovrebbe farcene di più.
Immagine: Hieronymus Bosch, Cristo che porta la Croce, 1490

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