25 giugno 2007

crisi della politica e crisi della nazione: qualche idea per una destra che pensa

Norman Rockwell, Freedom of speech, 1943
In quest’epoca di solide incertezze che attraversano i nostri torridi pomeriggi romani, qualche lettura ci aiuta a riflettere e ci apre stimoli sensoriali maggiori di un buon bicchiere di Amarone. Può succedere quindi che un aristocratico signore dalla campagna inglese, un po’ dandy e molto retrò, ci dia una mano a capire che in Italia la crisi della politica strimpellata dai cantastorie dei grandi giornali, in realtà è una crisi più profonda che sta minando le basi della nostra convivenza civile.
In uno dei saggi raccolti nell’ultimo libro tradotto dall’editore italiano con l’agghiacciante titolo di "Manifesto dei conservatori", Roger Scruton ci spiega perché, dopo un secolo di internazionalismo proletario, di ipertrofia dell'Io capitalista, ubriacati dal relativismo, ci dovremmo dannare tanto a conservare quella cosa strana che si chiama "Nazione", invece che abbandonarci al caldo abbraccio del buonismo ecumenico tanto in voga tra le persone colte. Con assoluta naturalezza, senza bisogno di spolverare vecchi cappotti fuori moda tirati via dalla naftalina, Scruton ci spiega che la lealtà nazionale è la base di ogni vera e salutare cittadinanza. Se quest’ultima è “quel vincolo che si instaura tra lo stato e l’individuo nel momento in cui ciascuno si assume piena responsabilità nei confronti dell’altro”, essa non può essere slegata da un principio di "appartenenza comune". Quello che consente ad estranei di fidarsi gli uni degli altri costruendo le basi di una solidarietà concreta in grado di garantire libertà, sicurezza e sviluppo economico, è il superamento di una concezione tribale o confessionale dell’ordine sociale, ma soprattutto l’obbligo di sentirsi sottoposti ad un insieme di regole condivise e accettate.
L'analisi è chiara: la nazione nasce da un territorio comune e condiviso, da un contratto sociale che porta alla necessità di una giurisdizione territoriale, da una legislazione che implica un processo politico e in questo processo politico il senso dell’identità comune. Il ragionamento di Scruton ci fa dedurre che solo la nazione riesce ad essere luogo di sovranità della politica. E non è un caso che questo schifo di Europa e questo aberrante “spirito europeo”, altro non è che il tentativo di svuotare le nazioni europee di significato per consegnare i processi politici e decisionali nelle mani delle grandi burocrazie transnazionali che rappresentano la morte della politica come luogo di decisione sovrana e di auctoritas. E' laddove "(...) terra e legge si coniugano che si forma una vera lealtà nazionale" e con essa ruolo della politica e principio di responsabilità dei governanti, principio che i processi transnazionali annullano.
La cultura politica della destra non liberale, il cui retaggio affonda nella grandi rivoluzioni nazionali del ‘900 e nel loro tragico epilogo dell’autoritarismo dettato dalla riduzione della lealtà nazionale a nazionalismo (che Roger Scruton definisce una patologia) e di una modernità declinata nell’orrore ideologico, ha sempre guardato con enorme sospetto il principio contrattualista come elemento di negazione delle appartenenze comunitarie. Scruton smentisce esattamente questo: "(...) i teorici del contratto sociale ne scrivono come se esso presupponesse solo il pronome di prima persona singolare della libera scelta razionale. Di fatto presuppone il pronome di prima persona plurale per il quale sono già stati assunti gli oneri di appartenenza". Non può esistere alcun contratto sociale senza un legame di appartenenza che dia senso alla relazione tra i membri.
Le riflessioni di Scruton ci aiutano a comprendere aspetti essenziali di alcune dinamiche geopolitiche contemporanee (come ha giustamente notato l’ottimo Mariniello per l’attuale crisi palestinese). Ma soprattutto ci fanno capire che la crisi che attraversa il nostro paese è più profonda e radicale e coinvolge anche quei soggetti sociali che cercano di tirarsene fuori denunciando una crisi della politica (sindacati, intellettuali, mondo dell'economia ecc.). Non è semplice crisi di una classe politica che i poteri forti alimentano nei loro giornali per accelerare la sostituzione con abili fantocci decisi da loro. La crisi del nostro paese è innanzitutto tutto crisi del rapporto tra cittadinanza, identità e lealtà nazionale a tutti i suoi livelli. Una crisi profonda che paradossalmente si risolve solo ricostruendo il tessuto sociale fondandolo su una cittadinanza comunitaria e su un senso di appartenenza che è memoria storica e identità nazionale. Linguaggi e concetti che appartengono da sempre alla cultura politica della destra.
Lasciando tranquillamente Don Milani alle pippe mentali della sinistra più vuota della storia, la cultura politica della destra (semmai c'è) farebbe bene a tirare fuori dalla soffitta dei propri sensi di colpa queste idee, ripulirle dalla polvere della retorica e a renderle progetto politico.
Immagine: Norman Rockwell, Freedom of speech, 1943

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11 giugno 2007

se io fossi un intelligente leader della sinistra...

Pablo Picasso, Autoritratto, 1972Se io fossi un intelligente leader della sinistra lavorerei per far cadere il governo Prodi, subito. Prima che ci riescano quelli che stanno provando a farci la pelle… e non parlo della destra. Anche se fossi un leader mediamente intelligente farei la stessa cosa. Se fossi un leader stupido invece no; continuerei a fare quello che ho fatto finora: provare a trasformare le mie nevrosi in crisi del paese, arrabattarmi sulle regole di un Partito che nessuno vuole, invece che guardarmi le spalle seriamente da quello che, mentre qui piovono missili, continua a scappare in giro per il mondo tra il Malawi e Ségolène perché ha capito che la sua assenza si nota più della sua presenza. Certo, il problema è come scongiurare le elezioni anticipate. E fin qui la cosa è sacrosanta. Se si dovesse andare al voto oggi il centrosinistra prenderebbe una scoppola tale che non lo risolleverebbe neanche uno strip della Ferilli. Ma lavorare su un Governo tecnico, prima della resa dei conti di Ottobre quando si dovrà dare un senso a quella cosa strana che chiamano Partito Democratico, è l’unica soluzione che appare alla mia intelligenza di leader democratico. Soprattutto ora che è partita l’operazione: “liquidazione DS” e le intercettazioni serviranno a tenere sotto botta Fassino e D’Alema, fino alla proclamazione di Veltroni scelto già nei salotti che contano.
Se io fossi un intelligente leader di sinistra farei questo ragionamento: la nuova primavera dell’Ulivo è andata a farsi fottere. Tra il genio e l’imbecille ha vinto il genio… ovviamente. Se avessimo dato retta a quel geniaccio del Berluska quando ci aveva proposto una Grande Coalizione, dopo quelle elezioni che abbiamo perso pur avendole vinte, ora non staremmo a questo punto (e l'Anarca l'aveva detto!). Avremmo fregato i poteri forti che adesso stanno fregando noi e avremmo ridato peso e valore alla politica invece di sputtanarla in questo modo tanto da far sembrare uno come Montezemolo il moralizzatore dei costumi. Ma siccome non c’abbiamo creduto, siccome abbiamo pensato che il sistema di poteri più o meno occulti che Prodi rappresentava fosse il collante migliore per far diventare intelligenti pure Russo Spena e la Melandri, siccome abbiamo pensato che, imbroglia di qua e incarta di là, avremmo compensato l’assenza di un programma credibile, alla fine al Cavaliere non abbiamo dato retta e abbiamo sbagliato. Ora che quei poteri che ci hanno fatto vincere vogliono la nostra pelle sarà dura resistere. E’ evidente che sul caso Visco l’abbiamo scampata per l’ennesima volta ma solo uno scemo può pensare veramente che si possa continuare ad andare avanti così: bloccando l’attività del Senato per mesi, mettendosi a fare i riti voodoo ogni volta che c’è una votazione, sperando che le bombole di ossigeno mantengano i senatori a vita in vita. Adesso che pure quei crucchi dei tirolesi hanno capito il meccanismo e giocano al rialzo, si può continuare a governare con birra e salsiccia?
In più il quadro è desolante: siamo riusciti a far incazzare tutti, il Paese è allo stremo e non c’è una sola categoria sociale che non speri che schiattiamo e a livello internazionale lasciamo perdere. Eppoi c’è questo problema del PD. Rischiamo di non uscirne vivi. E’ ovvio che Prodi non voglia un leader ma una badante. Se si dovessero fare le primarie ad Ottobre lui non riceverebbe neanche il voto della moglie. Premesso che rischiamo che alle primarie a votare ci torniamo io, Milva, Krizia, forse Renato Zero e magari Massimo Ghini perché secondo me neanche quel bollito di Antonello Venditti si farebbe vedere.
E allora? Allora io, che sono un intelligente leader della sinistra penso che dobbiamo far cadere subito il governo Prodi. Prima delle primarie. Cercare un accordo con la destra per formare un governo tecnico che faccia le riforme e tra un anno e mezzo tornare a votare quando tutti si saranno dimenticati i casini che abbiamo combinato. Anticipare le mosse per cercare di mantenere potere d’interdizione su quei poteri che stanno decidendo per noi. Decretare il nuovo leader a furor di popolo. O meglio far credere al popolo delle primarie che lo decreti; perché in realtà è stato già deciso da Paolo Mieli e da Scalfari, dal patto RCS e da De Benedetti, da Montezemolo e da parte della Confindustria, dall’oscuro potere della finanza italiana e dai poteri forti della finanza internazionale e forse anche da Gianni Letta. A questi poteri serve uno che sciolga la politica nel nulla per poter gestire il paese in maniera più tranquilla; per questo, con i loro giornali e i loro intellettuali, hanno scatenato la favola della crisi della politica. E serve uno che liquidi la sinistra dentro un Partito Democratico che stia a sinistra ma non sia di sinistra. Uno che faccia il politico senza fare politica… che quella la faranno gli altri. L’hanno trovato: "il formidabile Veltroni". Perché per la nuova sinistra servirà un leader col volto pulito, lo sguardo malinconico ma credibile. Uno che sembri fuori dalla palude di questo fallimento, che riesca ad apparire un uomo nuovo anche se nuota in questa palude da 30 anni. E chi meglio di lui può riuscirci? Colui che è diventato sindaco di Roma per un regalo della destra quando era ormai politicamente morto. Uno che per 30 anni ha abitato nei corridoi di Botteghe Oscure ed è riuscito a far credere alla gente di non essere mai stato comunista. Uno che, di fronte alla violenza dilagante a Roma è riuscito a far credere di non esserne il Sindaco, magari facendoci sopra una lezioncina sulla legalità dalle colonne di Repubblica. Insomma mi volete dire che uno così non è il leader adatto per ricostruire una sinistra che non sia più sinistra che vada però bene alla sinistra e anche alla destra che tanto destra non è?
Io dico che se fossi un leader intelligente della sinistra saprei già cosa fare. Peccato che sono solo intelligente…
Immagine: Pablo Picasso, Autoritratto, 1972

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06 giugno 2007

i brogli elettorali li fa la sinistra, parola di studiosi

Oddio, hai visto mai che Berlusconi sui brogli elettorali aveva ragione? E se a dirlo non è Bonaiuti, né qualche berluscones del centrodestra, il problema si fa grave. A dirlo, ma guarda un po’, sono Luca Ricolfi e Silvia Testa in un saggio pubblicato all’interno del volume di prossima uscita "Nel segreto dell'urna" (edizioni Utet, di cui Ricolfi è uno dei curatori). Ne dà notizia Il Velino in questo articolo qui da leggere.
La considerazione di partenza è che i brogli elettorali ci sono sempre stati e che si sviluppano non a livello centrale ma periferico. In altre parole la famosa tesi di Enrico Deaglio, secondo cui l’alterazione delle schede nelle ultime elezioni sarebbe avvenuta direttamente nel cervellone del Viminale, appare incoerente e impossibile. Per farlo si dovrebbero alterare anche i verbali e le procedure di voto; al contrario è facile che irregolarità si siano sviluppate a livello periferico, cioè nei conteggi delle sezioni elettorali. Certo, dicono i due studiosi, che a questo livello l’errore è psicologicamente diverso. Può essere frutto di ignoranza del regolamento da parte del presidente di seggio, può essere frutto anche di errore casuale da parte degli scrutatori. Chi, come noi, ha spesso partecipato a scrutini elettorali in diverse elezioni, sa che la capacità di manipolazione a livello territoriale è direttamente proporzionale alla forza di copertura dei seggi da parte di presidenti, segretari, scrutatori e rappresentanti di lista; capacità che la sinistra possiede e la destra no. E troppe volte, da semplici rappresentanti di lista, ci siamo trovati immersi in sezioni dove l’intero personale impegnato era dichiaratamente di sinistra, a cercare di contrastare conteggi fortemente modificati e non solo a livello di preferenze, ma spesso a livello di voti di lista. Denunce o contestazioni messe a verbale servono spesso a poco.
I due studiosi confermano questa tesi con dati storici. Nei riconteggi delle elezioni passate la destra ha recuperato il doppio delle schede della sinistra. Quindi a livello periferico chi è più in grado di alterare i risultati? Chiaro, la sinistra. Qualche esempio:
Regionali del Lazio 1995. Piero Badaloni (centrosinistra) vince su Alberto Michelini (centrodestra) per 7.000 voti (0,2%). Dopo il riconteggio il centrodestra recupera 2.000 voti, facendo scendere la differenza tra i due candidati allo 0,16% (il calcolo, aggiungiamo noi, non tiene però conto che le schede annullate, non quelle contestate, furono quasi 30.000). Politiche 2001: su un campione di 337 schede riesaminato 227 vanno al centrodestra e 110 al centrosinistra.
Politiche 2006 (quelle contestate da Berlusconi): "su 1290 schede contestate, la Giunta delle elezioni della Camera, ne ha riassegnate 499: precisamente 340 (oltre due terzi) alla destra, 159 alla sinistra. Il rapporto di recupero in sede di riconteggio del centrodestra, insomma, risulta essere doppio di quello della sinistra (D/S= 2,1)".
Ovviamente, aggiungiamo sempre noi, i due studiosi si basano solo sulle schede contestate che vengono riconteggiate al seggio centrale; non si considerano le migliaia di schede annullate e mai ricontrollate. Questo è il dato veramente eclatante perché se il broglio avviene a livello periferico, a maggior ragione sono le schede annullate quelle che determinano la differenza. Nelle Regionali in Puglia del 2005, Vendola sconfisse Fitto di 10.000 voti circa con oltre 130.000 schede annullate e mai ricontrollate.
Ricolfi e Testa fanno anche gli esempi aritmetici di come, con pochissima fatica, nelle ultime elezioni si sarebbe potuto ribaltare il risultato "in cui la coalizione X batte la coalizione Y per 24 mila voti su 38 milioni di voti validi". Per esempio bastava che "in una sezione su dieci gli scrutatori della coalizione Y riescono a spostare da destra a sinistra un ‘pacchetto’ di tre voti (un voto spostato da una parte all’altra conta il doppio)" e il gioco è fatto (gli altri esempi ve li leggete direttamente nell'articolo...)
Insomma, se bastava così poco per condizionare il risultato elettorale delle ultime elezioni, qualcuno immagina cosa può essere successo in sezioni di regioni come Emilia Romagna, Umbria, Toscana o Marche dove presidenti, segretari, scrutatori, rappresentanti di lista, uscieri, messi comunali, mura, porte e sedie hanno una precisa tessera di partito o di sindacato in tasca?...

04 giugno 2007

né senso dello Stato, né senso del ridicolo

"Visco ha dato prova di senso dello Stato" (Romano Prodi sullo scandalo Visco-Gdf)
Si può essere comici involontari e tragici cantori della propria fine allo stesso tempo. In questa frase ridicola, che suona come uno scherno a chi lo Stato lo ha servito veramente, si legge l’epilogo di una delle stagioni più brutte della storia del nostro paese. In poco più di un anno la nuova primavera dell’Ulivo cantata dai cortigiani del potere intellettuale, elogiata dai saltimbanchi di redazione e dai padroni dei salotti confindustriali, è marcita nello squallore di una classe dirigente grigia, ossessionata da un potere nevrotico e arrogante come raramente si è visto. Il caso Visco e il modo in cui si è lacerato il rapporto istituzionale con un corpo dello Stato al solo scopo di salvare un governo in coma irreversibile, ha dimostrato una totale assenza di responsabilità e nello stesso tempo l’incapacità di questa classe dirigente di uscire dal pantano in cui si è infilata. La fine del governo Prodi è ormai questione di tempo. Bisognerà solo decidere quando e come; e l’opposizione ha le carte in mano per imporre trattative vincolanti a ciò che resta a sinistra di realismo e serietà politica. La volgare operazione Visco potrà rimandare di qualche mese la caduta, il tempo necessario a sistemare qualche altro imbroglio, ma ormai la strada è segnata. La conflittualità sociale è al massimo, il discredito internazionale pure. Le aree produttive e vitali del paese fremono e si agitano in maniera incontrollabile. Le ultime amministrative sono state più di una sconfitta; se si osserva il voto allargandolo oltre i capoluoghi di provincia fino ai gradi centri urbani e industriali spesso più importanti degli stessi capoluoghi, il centro sinistra è in rotta completa. Questo governo non è neanche più in grado di suscitare odio, sentimento troppo nobile per la pochezza della sua politica; al massimo suscita disgusto. Un disgusto che ora monta anche dalla propria parte. Coloro che lo hanno fiancheggiato determinandone l’ascesa, quei poteri forti che ruotano attorno al ciuffo di Montezemolo e agli editoriali farlocchi di Paolo Mieli, ora sono costretti ad inventarsi una "crisi della politica" per non dover ammettere la cazzata fatta e il fallimento della propria strategia.
La fine di questo governo segnerà il tramonto del percorso politico di Romano Prodi. Un tramonto incolore e indecoroso, degna fine di uno dei personaggi più equivoci della storia d’Italia. Dalla incredibile gestione dell’Iri negli anni di tangentopoli che solo una magistratura ideologizzata ha potuto ignorare, fino alle sedute spiritiche attorno ad uno dei più grandi misteri d’Italia. Passando per i intrecci più inquietanti di un potere che attraversa magistratura, grande finanza, sistema industriale, potere mediatico, che si interseca con le lobby tecnocratiche di Bruxelles a produrre uno spazio di negazione della politica a vantaggio di affarismi e clientele.

Ma il fallimento di Prodi è anche il fallimento epocale di questa sinistra e della cultura politica espressa in questi 15 anni. Della fine del Pci rimarranno le lacrime di Occhetto e la frustrazione di un sogno incapacitante dei suoi dirigenti: capire il mondo che cambiava. Gli eredi di Berlinguer si sono mostrati di una pochezza impressionante. Una classe dirigente assolutamente sopravvalutata, costruita a tavolino nelle redazioni dei giornali, nei cliché intellettuali, che è riuscita a perdere il contatto con il paese reale, con le sue esigenze, chiudendosi a riccio in un’autoreferenzialità che ora rischia di pagare cara. Incapace persino di pensare un leader riformista serio per battere la vitalità di Berlusconi, costringendosi per due volte a servirsi di un ambiguo boiardo di Stato e del suo sistema di potere. E questo vale sia per coloro che sono stati i protagonisti di questa stagione di governo, sia per quelli che se ne sono tenuti fuori a dare lezioncine sulla bella politica e ora volano come avvoltoi sulla carcassa di quello che rimane: in questo senso il baffo arrogante di D’Alema e i nèi intellettuali di Veltroni sono drammaticamente simili. Una generazione di vecchi 50enni noiosi nella loro arroganza intellettuale che dovranno provare a ricostruire da capo un progetto politico in grado di dare al paese una sinistra decente dopo questo fallimento; magari partendo dall'ammissione di errore di aver pensato che progetti, identità, fossero secondari rispetto alla strumentalizzazione dell’odio verso un avversario e alla sua demonizzazione. L’errore di non aver capito che a destra era sorto in questi anni qualcosa di più di un semplice "conflitto d’interessi". Un grande progetto, contraddittorio quanto si vuole, ma unico nel suo genere, in grado di disegnare una casa comune al popolo dei moderati: cattolici, laici, liberali, conservatori, federalisti, identitari, riformisti. Un progetto moderno che l’Italia non aveva mai avuto, chiusa tra l’egemonia democristiana, la marginalità di un cultura liberale inesistente e di una destra nostalgica e fuori dal tempo.

Nei prossimi mesi per il centrodestra si apriranno praterie sconfinate da conquistare, se solo i suoi leader riusciranno a capirlo. Questo avverrà per la crisi della sinistra ma soprattutto perché le grandi sfide di questa fase della modernità sono quelle che si giocano nel campo della cultura politica di destra: la sfida dell’identità minacciata, il bisogno di legalità, il ritorno di polemos, il riemergere della religione nella dimensione pubblica, il valore dell’auctoritas come fondamento della politica. Aspetti su cui la sinistra non è in grado di porre contenuti, in Italia come in quasi tutto il resto d’Europa (la straordinaria vittoria di Sarkozy lo dimostra). Anzi quando lo fa (come è il caso di droga, immigrazione, famiglia, bioetica) o genera ultimi rimasugli di ideologia o è costretta a inseguire i linguaggi e i contenuti della destra con effetti inevitabilmente caricaturali.

Insomma, se questo è lo scenario, il caso Visco è uno degli ultimi colpi di coda di quello che verrà ricordato come uno dei peggiori governi della storia della nostra Repubblica. Sbeffeggiato dai suoi avversari, disprezzato dai suoi stessi alleati, Prodi rappresenta una maschera grottesca e perfida allo stesso tempo. Attendiamo la fine con pazienza riflettendo che se lui e i suoi sgherri non hanno mai avuto il senso dello Stato, ormai non hanno più neanche ciò che a volte è l’ultima barriera a difesa di un barlume di intelligenza e di dignità: il senso del ridicolo.

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