20 gennaio 2006

L'Oriana mozzata... della serie: fermate gli idioti... voglio scendere!

Giuseppe Veneziano, pittore.
Lo stesso mestiere di Gaugain, Monet, Picasso, Munch, Sironi, De Chirico, Klimt, Kandinsky…
Giuseppe Veneziano pittore dalla Sicilia. La terra di Antonello da Messina e di Renato Guttuso.
Giuseppe Veneziano…eccolo qui il suo capolavoro. La testa mozzata di Oriana Fallaci. E’ esposta fino al 18 Marzo a Milano in una sua personale dal titolo "American Beauty".
Sul comunicato stampa dei curatori si legge: “La pittura di Veneziano, diretta, limpida e sfacciata, indaga la realtà dei fatti e le modalità di trasmissione mediale per portarne alla luce gli aspetti di finzione e di ambiguità che si nascondono al di sotto della superficialità della comunicazione mediatica”….. 41 parole e 226 caratteri per dire che la sua pittura è una stronzata micidiale.
Ma il meglio viene dopo: “l’attenzione all’aspetto umano di cui è necessariamente pregna ogni vicenda esistenziale e la vena ironica che sdrammatizza le debolezze e le perversità dell’american way of life”. Per il maestro, la perversità è l’american way of life… la perversità è Oriana Fallaci, non questa qui.
La cultura occidentale moderna tende spesso a rovesciare il senso delle cose quando smette di pensare partendo dalla realtà. La testa decapitata di Bin Laden forse sarebbe stata più dissacrante ma meno politically correct… e la differenza è che la povera Oriana non spedirebbe certo una fatwa a mezzo Corriere della Sera.
Quando Caravaggio dipingeva le sue decapitazioni dava realismo a ciò che reale non era. Rappresentava l’orrore nello sguardo di Oloferne o l’atto compiuto nel gesto di Davide… ma stabiliva un controllo tra ciò che la pittura doveva dire e il dramma rappresentato. E lo poteva fare perché Caravaggio non aveva sentito le urla strazianti di Nick Berg, né visto su internet l’orrore di un corpo che si dimena di fronte alla follia.
E quindi quella pittura, (il colore, l’incarnato straordinariamente vivo, il chiaroscuro), al di la’ del suo significato simbolico, diventava l’orrore e non giocava sull’orrore… non lo banalizzava ma lo restituiva al suo dramma.
Qui, al contrario, si rende illusione ciò che invece è drammaticamente reale. Si trasfigura l’incubo vero come fosse un gioco policromo. Non si esorcizza il male… lo si ridicolizza. Quando l’orrore diventa banalità e la vita si trasforma in un intellettualismo nulla ha più valore. E’ un’arte senza trasgressione perché la trasgressione della realtà, della ragione è già fuori… è nel mondo.

Questo quadro è un’operazione culturalmente indecente.
Vorrei che qualcuno fermasse questi idioti: quelli con il pennello e quelli con la penna… vorrei provare a scendere da questa cultura occidentale che rotola su se stessa come una testa mozzata…



update: il dibattito sul web dal blog di Mario Adinolfi ... con qualche goccia di vanità da parte dell'Anarca.

16 gennaio 2006

AAA.… Pasolini e pensiero delle donne cercasi


In politica le sconfitte andrebbero “elaborate”… esattamente come i lutti. Il rischio, in caso contrario, è una forma di depressione che annulla la capacità di comprendere le ragioni e individuare un senso verso il quale muoversi.
Il corteo sulla 194, così come quello sui Pacs, a difesa di una laicità dello Stato che in realtà nessuno mette in discussione, con il bagaglio retorico di un radicalismo imbarazzante, sono la prova che qualcuno (o qualcuna), la devastante sconfitta al referendum sulla procreazione assistita non l’ha ancora elaborata. Chi manca all’appello non è tanto la sinistra politica… per quello che vale oggi nella sua indecenza culturale lascia poco spazio ai buoni propositi. No, chi manca all’appello è il pensiero delle donne… e da troppo tempo ormai.
Il linguaggio del corteo come risposta politica (con il suo armamentario di slogan e di eccessi provocatori), racconta più un tentativo affrettato, estremo di rivincita… che una strategia elaborata dopo una sconfitta. Vladimir Luxuria sottobraccio alla nonna pensionata della CGIL non è il frutto di una normalità forzata ma il segno di una grande confusione; e per “uscire dal silenzio” forse ci vuole altro… che una terapia di gruppo.
Chiara ha 23 anni e viene da Torino… è una delle tante voci di quei cortei; dice su l’Unità: “con le mie amiche abbiamo creato un gruppo di discussione all'università per prepararci a questa manifestazione. Credo che il femminismo non sia mai morto”… Chiara ha ragione: il femminismo non è morto… si è semplicemente fermato; ha deciso di smettere di crescere… perché non vuole diventare grande. Non elabora più i suoi lutti, li chiude a chiave nella cintura di castità dell’anticlericalismo, chiudendoci anche quello che è stato per 20 anni un pensiero fertile allo scontro e al confronto.
Il femminismo è partito da sé… e lì dentro si è fermato; ha preferito infilarsi in un pensiero circolare… un eterno ritorno che rischia di essere la sua morte. Basta leggere un qualsiasi dibattito recente tra le donne per rendersene conto. La crisi di un pensiero diventato sul tardi ideologia. Stesse dinamiche conosciute, noiose: chi siamo, dove andiamo, come eravamo, il bisogno di ricambio generazionale, le Lecciso oggetto di riflessione, … questo parlarsi addosso fuori dal divenire del mondo… tutto molto maschile.
Il pensiero delle donne ha smesso di pensare. Non si è reso conto che l’ultimo referendum ha segnato un cambiamento importante della società italiana… molto più di quanto abbiano compreso il fantasma di Pannella e il suo giovane e scarso replicante. Nel 1981, con il referendum sull’aborto, gli eserciti erano schierati come una battaglia ottocentesca: l’Italia dei preti da una parte e quella del progressismo laico dall’altra e tranne qualche rara eccezione (Bobbio, Pasolini), ognuno vestiva la propria uniforme e seguiva i propri stendardi (l’esempio bellico è ovviamente una provocazione maschilista). Oggi i confini sono più fluidi… la grande muraglia delle ideologie e delle loro finte identità è stata abbattuta anche grazie al pensiero delle donne… ma sembra quasi che loro non se ne siano accorte.
Nell’ultimo referendum sulla legge 40 sono persino arrivate a rimuovere le grandi intuizioni degli anni ’90 quando loro per prime capirono il potere devastante della tecnica sul corpo e sulla libertà femminile. Perché oggi il vero pericolo sta lì…e chi continua a cercarlo oltre il colonnato del Bernini forse avrebbe bisogno di una nuova mappa di idee con cui orientarsi.
Il potere oggi non veste l’abito talare ma veste i panni di una cultura scientista che non accetta limitazioni etiche e si maschera dietro un umanitarismo da profitto; nel sogno mai abbandonato di una selezione eugenetica disumana.
Un potere immane, terribile che violenta il corpo della donna… ma anche quello dell’uomo e offende la dignità dei generi.
Per 30 anni le donne hanno detto, scritto e pensato che bisognava partire da sé. In questa maniera si sono riappropriate di se stesse… del proprio corpo, delle proprie decisioni. Ora che questa appropriazione è avvenuta (più di quanto esse stesse credono) sarebbe opportuno, per loro, provare a partire dal mondo… imparando a leggerlo. Il mondo abitato anche dagli uomini, dalle leggi della storia, dai meccanismi del potere, dalle trasformazioni imposte da una tecnica pervasiva e devastante, dalle accelerazioni della società che quasi mai si controllano o si prevedono. Forse anche le riflessioni sull’aborto, sulla RU486, sulla biogenetica porterebbero nuovi frutti… in qualche caso accettando anche le contraddizioni.
Nel 1975 (30 anni fa!!!!), sul Corriere della Sera, Pasolini scriveva: “Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni e nel comportamento quotidiano (…) io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente (…). Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora di ogni principio democratico ed è inutile ripeterlo”.
Forse è da qui… da questo pensiero al confine dei due generi, figlio di una diversità sofferta nel corpo e nello spirito, che il pensiero delle donne potrebbe provare a ripartire.

10 gennaio 2006

Una canzone per Fabrizio

Nicola, fratello di Fuori di Casa, mi ha mandato questo ...video... bello, bello, bello. Una canzone della Gulliver's band dedicata a Fabrizio Quattrocchi. Un video semplice e suggestivo... guardatelo, ascoltatelo e diffondetelo il piu’ possibile... questa canzone è un dono più grande di qualsiasi medaglia civile... è ciò che ferma il ricordo di un atto, ciò che lo fa esistere.
L’ascolto con amore e tensione... e mi vengono in mente le parole di Gottfried Benn: “
cio’ che non si esprime non esiste”.

COSI' MUORE UN ITALIANO

Fragile vita mia in un secondo
te ne stai andando da questo mondo.
Non riesco neanche più a disprezzare
chi alla mia vita sta dando fine.

Non ho più lacrime da versare
io sono un uomo che sa accettare.
Non m'interessa più la giustizia
il fucile punta già la mia testa

non voglio sapere neanche il perché
se era destino che toccasse a me.
Le palpebre pesano sopra i miei occhi
e mi rassegno al fatto che mai piu la rivedrò...

Davanti a me
C’e un grande prato di girasoli
io disteso guardo su.
Ferite non ho e dagli affanni,
sono lontano

Cosi’ muore un italiano...


Sbiadite immagini dei pensieri
mi mostrano i pianti dei miei cari.
Troppo difficile rassegnarsi
gli direi com'è qui se potessi

Perché conoscevo le probabilità,
sapevo dei rischi che questo lavoro ha.
Dio mio tu perdonali che anch’io lo faro’
ti prego fa in modo che si ricordino di me

Da quando sto qua, mi trovo a stare
sopra le stelle
e dormo sulle nuvole

dovunque io sia
c’e’ Lui che mi accompagna per mano


Davanti a me
c’e un grande prato di girasoli
io disteso guardo su.
Felice volo via dagli affanni
sono lontano

Cosi’ muore un italiano...

08 gennaio 2006

Jüngeriade… come provare a raccontare Ernst Jünger e se stessi in maniera criptica partendo da una polemica capziosa.

Questo lungo post criptico serve a scaldare i motori dopo la lunga pausa natalizia. Per i più sarà forse incomprensibile… per i meno sarà superfluo. Probabilmente hanno ragione entrambi; ma siccome il blog è mio e lo gestisco io, chi vuole lo legga chi non vuole cambi canale... c’è sempre il blog di Beppe Grillo a portata di click.
Oggetto del contendere una polemica con un tal Emanuelo Venator… che non è mio cugino… il quale ha inondato di commenti il mio post sui soldati americani. Motivo: questo blog è un blog liberale, neocon, teocon, neokant (ma la logica ha ancora un senso?)… e quindi non può essere firmato da Martin Venator l’anarca, il personaggio protagonista di Eumeswil, uno dei più suggestivi romanzi di Ernst Jünger.
Ora, premesso che io sono Martin Venator e non potrei firmarmi in altro modo, rimane il problema del perché le persone perdono il loro tempo dietro polemiche astiose, abbandonando il gusto di assaggiare ciò che è diverso evitando di mettersi un parruccone bianco e sparare inutili sentenze che distolgono da ciò che è essenziale. Iniziamo così il nuovo anno. Lo stupido Anarca prende spunto da questa inutile polemica per provare a rendere incomprensibile ciò che per Emanuelo è così limpido, chiaro, luminoso e lampante.
Provo a raccontare Ernst Jünger partendo da me, … che sono una sua creatura… inventata alla fine degli anni ’70 con il mondo in ebollizione.
Mentre leggo i commenti di Emanuelo continuo a pensare che l'intellettualismo sia una brutta cosa, soprattutto quando porta le persone a definirsi “antiamericani storici”... che a orecchio mi sembrano leggermente più ridicoli di quelli ideologici. E l’intellettualismo è proprio ciò che Jünger ha evitato nei suoi 102 anni di percorso terreno, attraversando il ‘900, assaporandone il gusto, visitandone tutti gli anfratti con curiosità da quelli poetici (in realtà ben pochi), a quelli terrificanti (di gran lunga maggiori), come uomo di azione e di pensiero.

Mettiamola così: prima che il buon Ernst m’inventasse come Martin Venator, io leggevo Jünger quando molti di quelli che scrivono commenti su di lui forse giocavano a soldatini... solo per un problema anagrafico sia chiaro non per altro. La lettura di Ernst Jünger, inizialmente in edizioni assolutamente inadeguate o quasi clandestine, ha accompagnato un’intera generazione che provava ad uscire dalla melma degli anni ’70 scoprendo una critica alla modernità che accomunava in maniera eretica autori di “destra” come Jünger, di “sinistra” come Pasolini e pensatori cattolici come Augusto Del Noce. Ricordo quando imberbe diciottenne trascinai un giovane e sconosciuto Marcello Veneziani all’università di Roma a raccontare l’utilità di avere un disordine intellettuale per essere liberi, magari leggendo proprio Jünger, Pasolini e Del Noce come antidoto ad un nichilismo che tutti e tre avevano intravisto, anche se in maniera diversa, nel destino dell’occidente.

Con alcuni pazzi fratelli di destino e di politica, anni e anni fa... forse secoli...organizzai un convegno su Ernst Jünger alla Sapienza di Roma circondata dai custodi del vapore con le loro spranghe ed i loro caschi innocenti. C'erano Alain de Benoist, Marcello Staglieno, Marino Freschi, Giano Accame, Gennaro Malgieri e molti altri a confrontarsi con un gruppetto di giovani in fermento e costringendo Antonio Gnoli ad una terza pagina di Repubblica che per la prima volta scopriva l'Operaio, il Ribelle, l'Anarca, sorprendendosi di una provocazione culturale che un manipolo creativo di fanciulletti nonconformisti aveva fatto, scuotendo le mura grigie e sorde del potere culturale e accademico.
Non solo, ma “Il bosco e la nave”, archetipo jüngeriano di assoluta attualità, accompagnò persino un’esperienza editoriale compiuta ed incompiuta nello stesso tempo, intrecciatasi con vite, amicizie e destini sfortunati.
Se qualcuno dei giudici incasellanti, collocatori di anime, si fosse preso la briga di leggere questo stupido blog in tutti i suoi post nei suoi due mesi di vita, forse capirebbe la complessità di un percorso che non è solo individuale; e questa complessità si lega a inevitabili contraddizioni… perché ogni uomo e ogni donna vivono le loro contraddizioni come spazio e limite della propria libertà.
Emanuelo, che io critico ma per il quale nutro grande simpatia, mi accusa di lavorare per il Condor, che nel romanzo di Jünger è l’allegoria di un potere assoluto, pervasivo, totalitario, dimenticando che è la stessa accusa che il povero Martin si beccò dal suo fratellino Cadmo. In realtà molti lavorano per il Condor coscientemente... molti lo fanno inconsapevolmente, e l'intellettualismo, la gabbia aperta per ficcarci dentro le idee ed il pensiero vivo e lasciarlo lì ad ammuffire, è la strategia che da sempre il Condor adotta.
Esistono percorsi che non hanno coerenza ideologica, ma sono intuizioni che attraversano la vita ed il pensiero… perché la vera difficoltà non è aprire e chiudere caselle (cosa fin troppo facile!) la vera difficoltà è distruggere le gabbie dentro le quali i piccoli condor vorrebbero rinchiudere i vissuti e le esperienze degli altri. Ripeto: il problema sono proprio quelli che hanno l’intelletto sempre in ordine, così come la propria libreria… che sanno sempre cosa leggere e soprattutto come leggere… anche quei libri che meno si adattano all’ortodossia culturale del ben letto.
La coerenza e l’incoerenza c’entrano molto poco. Per questo si può iniziare il proprio cammino culturale ed esistenziale con Aragorn, Gandalf e il portatore dell’Anello, continuare con Drieu, Brasillach e Knut Hamsun, fare un girotondo nella ciclicità di Spengler, passare per Céline ed il suo argot, strisciare verso Alain Caille legando il Mauss a D’Annunzio, ubriacarsi di Marinetti e della sua sfida alle stelle, soggiogarsi al neo paganesimo di Krisis, rileggere Pasolini dribblando i borgatari ideologici e innamorarsi della Yourcenar in tarda età solo perché Mishima amava l'Antinoo che amava Adriano nelle sue memorie... eppoi, magari approdare ai Padri della Chiesa, ritenere Ratzinger una delle più vive intelligenze del nostro tempo e pensare che Isaiah Berlin e Raymond Aron non sono proprio dei servi di qualche complotto demo-giudaico-massonico… ma voci di grande libertà che l’occidente dovrebbe ascoltare se vuole continuare ad avere un motivo per esistere.
Ed in questo labirinto di idee, dove i minotauri del “culturalmente corretto” stanno sempre lì pronti a menar fendenti, magari ti convinci pure che Il Foglio di Ferrara è una voce di grande cultura, forse l’unica in Italia, molto più jüngeriana degli squallidi ottocenteschi incasellatori di professione... arrivando alla considerazione politica, temibile e mutabile che di fronte al deserto di un’Europa puerile controfigura di se stessa, i biechi americani guerrafondai, capitalisti e blablabla, rappresentano una visione della libertà che non esiste altrove. E alla fine il povero anarca arriva a preferire il vitalismo di Bush, la capacità di comprendere il mutare della storia di Robert Kagan, la follia visionaria di Oriana Fallaci, la lucidità di André Glucksamnn… al mercantilismo pacifista di quest’Europa grassa e povera chiusa nella prigione di utopie ottocentesche i cui carcerieri non hanno divise grigie ma vivono nei salotti letterari e culturali di una intellighenzia indecente e nei lucidi specchi vanitosi di Bruxelles.
E lo stesso anarca trova più bella più vera e più commovente l’immagine del giovane soldato israeliano che piangendo sgombera i suoi fratelli coloni, o quella del soldato americano che abbraccia il bambino iracheno…di quanta ne trovi nel ghigno di Gino Strada, nello sguardo sbiadito delle varie simone, giuliane e di tutte le anime belle di destra e di sinistra che ravvivano la coscienza del nulla che avanza, leggendo complotti e interpretando la storia come se il muro di Berlino fosse ancora in piedi senza accorgersi del muro di stupidità eretto dalle loro bugie e senza avere un briciolo di pudore per le stronzate dette, scritte e fatte da 50 anni a questa parte.
I soldati di quelle foto sono percorsi vissuti dentro storie che fanno la storia, non intellettualismi arroganti dentro cui leggere il livore degli inetti.

La figura di Ernst Jünger sta innanzitutto qui… nella contraddizione di una vita spesa in cerca di tutto ciò che odorasse di libertà: la legione straniera a 18 anni, le tempeste d’acciaio della Somme, l’analisi del “der arbeiter” come condizione esistenziale dell’uomo con l’avvento del mondo della tecnica, l’adesione al nazismo e nello stesso tempo la partecipazione all’attentato contro Hitler sopra le scogliere di marmo di una denuncia coraggiosa e straordinaria dell’orrore in atto (laddove la cultura europea, democratica e antifascista, taceva o fuggiva); eppoi il passaggio al bosco… hic et nunc… l’infilarsi negli interstizi del mondo nella casbah di Eumeswil, l'inseguire la cometa di Halley una seconda volta e con essa la Pace, come condizione dello spirito e non come alienazione pacifista, coltivando il proprio giardino (che dà “una certezza maggiore di ogni sistema filosofico”) e studiando gli insetti... paradosso di un soldato che della guerra aveva fatto un segno della propria vita e di un pagano che due anni prima della sua morte, avvenuta nel 1998 a 102 anni, si convertì al cattolicesimo (lui che era di educazione protestante) dopo un lungo e tortuoso cammino.
Incoerenza, disordine… o forse amore per ciò che non si è…

Ho deciso di parlare in maniera così incomprensibile perché in tempi di critica fusionista, rimango convinto che questa città dei liberi possa diventare un esperienza viva se i percorsi, le storie, il pensiero vengono messi in circolo ad incrinare il conformismo dilagante; non è un problema di condivisione… le memorie non si condividono mai; è un problema di realismo… e di curiosità costruttiva. Il mio, di percorso, è lontano mille miglia da quello di molti con i quali in questo periodo mi sono imbattuto tra i vicoli di questa città, dopo essere stato accolto senza grosse diffidenze ma con molta curiosità; e questo è un elemento di libertà. E’ tempo di mettersi in gioco.
A Emanuelo consiglio di uscire dalla gabbia del suo ordine intellettuale, di mischiare un po’ i libri della sua impeccabile libreria e di pensare un pò di più al caos e alla stella dell’amico di Zarathustra.


Fine del post criptico. Dal prossimo si torna a parlare di cose serie.