17 febbraio 2008

debellare Utopia dalla nuova politica

di Giampaolo Rossi
Utopia torna di moda. Nell'ultimo saggio di Fredric Jameson (Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli), si riafferma la sua attualità politica come forma necessaria a "qualsiasi cambiamento fondamentale della nostra società". L'idea che la cultura di sinistra debba recuperare visioni utopiche per scardinare l'irreversibilità del processo di globalizzazione innescato dal tardo-capitalismo, non ci rassicura per niente. In questo dimostra la sua inadeguatezza di fronte alle trasformazioni del nostro tempo. L'Occidente singhiozza nelle convulsioni della modernità ma il recupero di Utopia nel lessico politico e culturale rende le convulsioni degli spasmi terminali.
Nelle sue lezioni di politica anche
Walter Veltroni ha rilanciato il linguaggio dell'utopia come linguaggio della politica: "abbiamo bisogno di stare con i piedi ben piantati per terra e insieme di tornare a sognare anche quel che sembra impossibile, irraggiungibile. Quel che sembra utopia. (…) A che serva l’Utopia? A camminare". Concetto ripreso nel discorso per l'Italia di Spello, dove ha parlato dell'Europa come di una "utopia divenuta realtà".
Inciampo concettuale, sgambetto del pensiero che ha fatto ruzzolare la storia negli orrori del '900,
Utopia continua a punzecchiare la fantasia degli intellettuali e dei politici europei. Cattiva interpretazione della dialettica tra identità e differenza: come se il conflitto, necessario al divenire storico, si determinasse solo nella distanza da ciò che l'altro rappresenta, dal suo modello sociale, politico e culturale. Eppure quell’idea di conflitto che René Girard vede generarsi dentro ciò che lui chiama "rivalità mimetica" (è il desiderio di ciò che desidera anche il nostro rivale a generare conflitto e violenza), ci avvicina al nostro avversario, ci rende simile a lui e lascia la politica nella sfera del possibile e di ciò che ci accomuna. Utopia, al contrario, ci distanzia dall’altro, ci infila dentro un simbolico non appartenere a questo mondo. Irrealtà allo stato puro, Utopia libera l’irrazionalità e nega la politica, la proietta fuori dalla storia, fuori dai confini della consuetudine, delle istituzioni.
D’altronde
Utopia non nasce dentro una dimensione reale. Prima di venire ingoiata nella politica, Utopia abitava l’universo onirico della letteratura come consapevolezza di un non vero; di qualcosa di impossibile e quindi di profondamente falso. E infatti, per Tommaso Moro, Utopia (dal greco ou tópos, “non-luogo”) era l'isola incontrata da uno strano navigatore, tale Raphael Itloideo (dal greco ithlos daìein “dispensatore di menzogne”). Quando la dimensione letteraria si fa evocazione politica naufraga inevitabilmente, perché il "luogo che non c'è" può essere abitato solo "dall'uomo che non c'è". Utopia diventa quindi un progetto drammaticamente anti-umano. Non a caso il '900 è stato il tempo delle utopie realizzate nelle ideologie che hanno reso macabra la storia dell’Occidente. Chi oggi fa lezioni di politica, spiegando la necessità del dialogo e del recupero di una dimensione razionale non dovrebbe richiamarsi a Utopia.
A cavallo tra la ricerca di nuovi linguaggi nella frantumazione delle identità sociali dettata anche dall'universo della rete, e il superamento di vecchi concetti, la politica deve provare ad incontrare i nuovi significati che la modernità elabora. Ci sono parole, dette con leggerezza e abitudine che ereditiamo da epoche ormai passate e che trasmettono significati morti. Tra queste la parola Utopia. Occorre debellare Utopia e pensare una cultura e una politica che partano dall'uomo concreto e dalle aspirazioni del suo vivere. E' questa la sfida di una vera nuova politica.
© Il Borghese, Gennaio 2008
Immagine: Rodcenko e Stepanova, Giovani aviatori, 1933, bozzetto per la rivista "l'Urss in costruzione"

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13 febbraio 2008

le blacklist del prof. Sofri

William Harnett, The faithful colt, 1890Repubblica dedica un articolo alla questione della infamante lista nera dei professori ebrei scoperta su internet. Il titolo, a caratteri cubitali, è: BLACKLIST. Il sottotitolo esplicito e chiarificatore dice: Cos'è l'infamia della proscrizione.
L’articolista mostra una grande competenza in materia, profonda conoscenza e capacità di analisi. Scorre con dovizia di particolari gli aspetti più terribili dell'uso del linciaggio e del terribile utilizzo delle liste di proscrizione, partendo dall'orrore delle leggi razziali italiane e dalla cultura antisemita che l'ha prodotte. Ricorda che l'uso della lista ha "a che fare con la morte: la morte fisica o comunque civile", perché una caratteristica delle liste di proscrizione è che esse prevedono"il diritto per chiunque di assassinare chi ne è colpito". Di qualunque tipo esse siano "pubbliche o private, più o meno per le spicce, passando o no per simulacri di Tribunali Rivoluzionari e Speciali e Terroristi", ricorda che "sicari si muovono con una lista di nomi nel taschino".
Compie un excursus storico straordinario, partendo addirittura da Silla, passando per la "Blacklist per eccellenza", quella della caccia alle streghe maccartista nell’America degli anni ‘40 e ‘50, arrivando alla Polonia dei giorni nostri, "sciovinista e antisemita dei fratelli Kaczynski". Si sofferma sulla storia (raccontata in una poesia di Aragon e messa in musica da Léo Ferré ) dell'Affiche Rouge, il manifesto affisso dai nazisti, nella Parigi occupata, con il volto dei membri del gruppo Manuchian, fucilati poi nel 1944. In un breve passaggio lapidario, ricorda che liste di proscrizione ci sono state anche nei "nostri cattivi anni Settanta", sorvolando (sicuramente per motivi di spazio) sul fatto che dentro quelle liste che si redigevano nelle università, nelle redazioni dei giornali di Lotta o meno, nei manifesti che intellettuali impegnati sottoscrivevano per compensare la loro vanità idiota e irresponsabile con il senso dell’impegno civile, ci finirono ammazzati magistrati, giornalisti, sindacalisti, avversari politici e a volte persino commissari di polizia… Storie di vittime innocenti che nessun poeta ha messo in versi, nessun musicista ha mai cantato, forse perché in Italia, poeti e musicisti, preferivano stare dalla parte dei carnefici.
Strana dimenticanza ma tutto sommato marginale rispetto al valore di questo articolo affidato ad uno dei massimi esperti italiani di "storia delle liste di proscrizione": il prof. Adriano Sofri.
Immagine: William Harnett, The faithful colt, 1890

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11 febbraio 2008

il 10 febbraio di Walter.

10 Febbraio 2008, Spello, Umbria, Italia, Europa, Mondo. Dal particolare all’universale. Un occhio al borgo italico medioevale e l’altro a Obama e al grande sogno americano. Commistione di sensazioni, viaggio nel tempo, divagazione tra spazio e emozione. Il "discorso per l’Italia" di Water Veltroni ha toccato anche le nostre corde, quelle più logorate dalle urla della politica che divide e non unisce; e le ha fatte vibrare dicendo poco o nulla ma dicendolo talmente bene da farlo sembrare tanto o tutto.
Una domenica bella, solare con lo sfondo scenografico di un paesino arroccato su una verde collina, teso verso il cielo come il futuro. Eppoi quel vento che soffiava e scapigliava e scompigliava e dava un'idea di aria nuova, fresca, pulita. Una domenica importante, "una domenica italiana” da ricordare. Una domenica serenamente e pacatamente patriottica, ma anche mistica. Vittorio Taviani lo ha paragonato a San Francesco, santo e guerriero, fede e determinazione; e di fronte ad un paragone del genere le provocazioni di Oliviero Toscani non ci toccano: “… mi metto il colletto su o giù? Mi metto a parlare sull’erba o vado nell’eremo? Neanche fosse Gesù Cristo”. Gesù Cristo ancora no. Ma non è detta l’ultima parola: perché "uno che vuole passare per nuovo ma dice le stesse cose con la stessa faccia da 30 anni", non va disprezzato con il solito qualunquismo, perché vuol dire che porta con sé un messaggio universale.
La location di Spello era azzeccatissima, se solo avessero indovinato le inquadrature. Forse qualche cipresso di troppo ma anche questo è un segno della storia perché se "dobbiamo capire bene dove il mare della storia ci sta portando", il passaggio dalla quercia al cipresso ce lo indica molto bene: la sinistra trapassa e la svolta arborea è ancora più netta di quella politica.
Un discorso intenso, un po' retorico ma necessario, per metterci "in sintonia con le correnti profonde della storia". Un discorso che parla alla gente ma senza la gente, perché sono più importanti le telecamere. Veltroni si rivolge al "destino dell’Italia, alla sua struggente e meravigliosa bellezza". Un discorso vivo, che parte "dalla bellezza dell’Italia, dalle coste del Mediterraneo, attraverso le colline e la grande pianura, fino alle Alpi"; un discorso che cita Moro, Spinelli ma fa pensare a De Amicis; un discorso che tocca "l’orgoglio di essere italiani”, che ricorda che "la qualità è l’Italia. E l’Italia è qualità”. Un discorso innovativo che cita 56 volte la parola "Italia", 26 volte "italiani" e manco una volta "compagni". Un discorso con cui “guardiamo negli occhi l’Italia e le diciamo: comincia un tempo nuovo”. Un discorso che sembrerebbe scritto a destra ma anche a sinistra perché noi dobbiamo essere "uniti sotto il tricolore, sotto la bandiera italiana. Uniti nella Resistenza”. Un discorso sulla "memoria che si fa speranza”. Appunto.
10 febbraio, era anche la giornata del ricordo. Veltroni non se ne è ricordato. Ci saremmo aspettati almeno un passaggio, una breve citazione, anche solo una piccola emozione buttata tra una riga e l’altra di un discorso fumoso; magari là dove ha parlato del “silenzio dei deportati” e “dei tanti giusti che seppero aprire la porta a chi cercava aiuto”. Ricordando quella parte d’Italia che la porta non l’aprì ai nostri fratelli perseguitati e cacciati dalle terre di Istria e di Dalmazia, relegandoli anche fuori dalla propria coscienza. Ed anche la città che lui governa e che ospita una delle più grandi comunità di esuli giuliano-dalamti, ha negato anche un piccolo gesto istituzionale di riconciliazione.
Il 10 febbraio di Veltroni è stata un’occasione perduta, una distrazione colpevole. Ed ora, ripensandoci, a vederlo lì, tra un tricolore ammainato e un cipresso, il leader di questa nuova sinistra che non ha "paura del nuovo perché il futuro è l’unico tempo in cui possiamo andare”, non da’ neanche una grande idea di novità, di coraggio, di speranza. Ma molta, troppa mestizia...

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01 febbraio 2008

Veltroni, un De Martino al contrario

Fairfield Porter, The mirror, 1966
di Giampaolo Rossi
Per la satira di Crozza è l'uomo del "ma anche": una caricatura implacabile che smaschera e ridicolizza quella indecisione ecumenica e l'atteggiamento mentale indotto, "pacatamente e serenamente", a considerare la politica come proiezione di sé, tra indole narcisista e mai sopiti sogni di egemonia. Eppure, paradosso di una politica che non è bella ma spesso beffarda, Walter Veltroni rischia di fallire non per i suoi "ma anche", ma per un "mai più" detto di troppo. Una similitudine inquietante con Francesco De Martino, il leader socialista che guidò alla disfatta il PSI nelle elezioni del 1976. Allora l'Italia usciva dal referendum sul divorzio e dalla vittoria comunista alle regionali del ’75 e sembrava irrimediabilmente attratta a sinistra; la sua formula degli "equilibri più avanzati" lo spinse a innescare la crisi del governo Moro e a spostare verso il Pci un Partito socialista che riteneva esaurita l'esperienza riformista. Coniando lo slogan "mai più senza i comunisti", De Martino affrontò la campagna elettorale andando incontro ad una sconfitta storica: il Psi scese per la prima volta sotto il 10% e per De Martino fu l'inizio della fine. Nel congresso socialista del luglio successivo fu costretto alle dimissioni, cedendo la segreteria ad un giovane Bettino Craxi che aprì la strada alla stagione del vero riformismo socialista.
Dal "mai più senza i comunisti" di De Martino, al "mai più con i comunisti" di Veltroni. La scelta del segretario del Pd di far correre il suo partito da solo "quale che sia la legge elettorale", escludendo a priori l'ipotesi di accordo con la sinistra radicale, sembra proiettare (seppure con intenti opposti) lo spettro dello stesso fallimento. Ed è forse sulla base di questo precedente, che anche dentro il Pd, iniziano a montare le accuse a Veltroni di aver di fatto causato la crisi di governo, con l’intenzione di andare alle elezioni anticipate. Gli "equilibri più avanzati" di Veltroni non sarebbero più quelli di spostare l'asse politico a sinistra, ma al contrario di spostarlo a destra.
Il partito "a vocazione maggioritaria" che Veltroni vorrebbe fondare con il suo "mai più" sancisce non solo la fine del centro-sinistra ma il suo storico fallimento; e l'imbroglio politico e culturale che c'era dietro di esso potrebbe travolgere non solo Prodi, ma anche coloro che in questi anni ne hanno rappresentato la classe dirigente. Forse quello di Veltroni è un atto di coraggio (e sarebbe il primo), forse è un autentico suicidio politico. Ma se si ripensa alla storia di De Martino, il segretario del Pd, per alcuni l’uomo nuovo della sinistra italiana, potrebbe svelarsi molto più vecchio di quello che sembra.
Immagine: Fairfield Porter, The mirror, 1966

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