11 agosto 2011

Nuovo indirizzo

Dopo molte peripezie, l'Anarca ha cambiato casa. Il trasloco è stato lungo e dfficile ma alla fine l'arredamento minimalista è preferito. Ora, per chi vuole venire a trovarmi, “questo è il nuovo indirizzo. Altrimenti, nemici come prima...

29 luglio 2011

Spider Truman e la stupidità della Rete

La storia è questa: giorni fa su Facebook viene aperta una pagina anonima, intitolata “i segreti della casta di Montecitorio”, in cui uno sconosciuto ex-precario, licenziato dopo 15 anni dal Palazzo, decide di svelare tutti i privilegi di cui godono i parlamentari e di cui lui è venuto a conoscenza negli anni trascorsi nelle segrete stanze del potere. In tempi di antipolitica, in cui colpire la casta è tornato sport nazionale, una cosa del genere non poteva non avere successo; in termini di marketing lo chiameremmo “giusto posizionamento”. In pochi giorni il sito raggiunge centinaia di migliaia di contatti, viene linkato e le informazioni che svela (la gran parte delle quali ovviamente già note), seguendo quella dinamica irrazionale che si chiama “diffusione virale in rete”, si propagano, vengono rilanciate da altri siti e raggiungono persino il mainstream di giornali e televisione; ed è qui che il moto di indignazione e di seriosa solidarietà verso il prode precario in lotta contro la casta infame, raggiunge vette impressionanti, con l’unica eccezione in Rai del Tg1 di Minzolini che prova a demitizzare il caso; insomma, il precario, che nel frattempo si è scelto come nome Spider Truman, diventa un caso mediatico e per molti un eroe nazionale. Col passare dei giorni, però, i dubbi iniziano ad affiorare sia sulla identità del personaggio, sia sulla sua presunta esistenza, tra teorie complottiste e video fasulli comparsi su YouTube; fino a quando un blogger non riesce a risalire al nome di Francesco Caruso, ex deputato di Rifondazione Comunista nella precedente legislatura e leaderino dei no-global italiani. Intervistato da un giornalista del Corriere, Caruso nega, balbetta, singhiozza, riattacca il telefono all’intervistatore, ma alla fine cede dichiarando che Spider Truman non è lui ma un suo amico “disgraziato, che non è bravo su internet e non è molto alfabetizzato”; e che lui gli avrebbe solo scritto i post e glieli avrebbe pubblicati. Passa un giorno e finalmente Spider Truman si fa vivo e dichiara di essere uno “in carne e ossa”, conferma la sua storia di ex-precario, accusando Caruso di essersi fatto scoprire come un pivello.
Mentre forse i due amici se le stanno ancora dando di santa ragione per decidere chi tra loro è stato più pirla, proviamo a fare una serie di considerazioni su questa ridicola fiction-web all’italiana..
La prima considerazione riguarda la cosiddetta casta dei politici. A verificare i loro privilegi viene da ridere: se si confrontano con quelli di cui godono magistrati o dirigenti di grandi aziende pubbliche, i parlamentari italiani sembrano degli sfigati. Tassi a mutui agevolati o viaggi gratis in treno sono cose da principianti. Solo che quelli dei parlamentari si chiamano privilegi mentre quelli degli altri si chiamano benefits.
La seconda considerazione riguarda l’eroico precario. Il problema non è che lo hanno licenziato, ma il contrario: perché non lo hanno licenziato prima. Come è possibile che uno che “non è alfabetizzato”, “non sa usare internet” e deve ricorrere a Francesco Caruso (non so se mi spiego) per mettere insieme due frasi scritte, abbia potuto lavorare per 15 anni a Montecitorio? Magari togliendo il posto a persone ben più qualificate? E se il vero privilegiato fosse stato lui?
La terza considerazione è la più importante e riguarda tutti noi. Molti miei amici su Facebook non hanno esitato a sposare la causa del precario-blogger. La cosa mi ha sorpreso perché molti di loro appartengono a culture liberali e moderate e comunque tutti sono persone intellettualmente evolute e capaci di pensiero critico e non conformista. Come è possibile allora che possano aver ritenuto credibile uno come Spider Truman? La riposta sta nella natura doppia dei cosiddetti media “democratizzati”. Le piattaforme “social” conservano un’ambiguità che affianca, alla possibilità di conoscenza, una quantità di informazione spesso superficiale, anonima (come nel caso di Spider Truman) quindi non verificabile, e semplicemente rumorosa. Anche la verità, al tempo di internet, rischia di diventare “on demand”: una verità su richiesta. Non si cerca più il vero ma ciò che noi desideriamo sia vero, magari sotto la pressione delle nostre frustrazioni sociali e delle nostre rabbie. E questa verità on demand, in rete, è facilissimo trovarla, proprio perché il costo di produzione e distribuzione è praticamente zero; basta un ex precario analfabeta travestito da vittima, per procurarcela. Questo fenomeno di condizionamento sociale, già indotto al tempo dei mass media che hanno generato i totalitarismi del ‘900, è oggi l’altra faccia, quella buia, del mondo virtuoso e relazionale dei social media.
La verità cessa di essere un processo critico di acquisizione, faticoso, per divenire una confezione bella, accattivante e a portata di mano. Può avere il volto di Spider Truman o quello di un frammento di un’intercettazione audio pubblicata fuori contesto per costruire teoremi. Lanciato il sasso, la rete consente di propagarlo con un effetto “eco” di distorsione e amplificazione, praticamente infinito
. E non sempre la rete ha in sé gli strumenti di difesa da tutto questo. L’unica difesa è la nostra intelligenza, per non cadere in quella stessa stupidità che un grande scrittore visionario come J.G. Ballard attribuiva ai pubblicitari: “l’inveterata abitudine di assaggiare la confezione invece del prodotto”.

© Il Tempo, 29 Luglio 2011

12 luglio 2011

Ora paghino gli spioni italiani

Italia e Inghilterra sono nazioni molto diverse tra loro: e grazie, direte voi, l'Inghilterra è un’isola abituata a starsene in mare aperto, mentre l’Italia è una penisola abituata a stare attaccata sempre a qualche cosa. Ma anche senza bisogno di guardare il mondo dalla luna, non ci vuole molto a capire che tra il paese di Pulcinella e quello della perfida Albione è difficile trovare cose che si accordino. Per esempio, in Inghilterra si guida a sinistra e si gioca a cricket, mentre in Italia si guida male e si gioca a tressette. L’Inghilterra ha una monarchia costituzionale, mentre l’Italia ha una Costituzione monarchizzata. In Inghilterra piove tanto ma poi si asciuga tutto, in Italia piove meno ma sempre sul bagnato.
Da oggi, le differenze tra Italia ed Inghilterra sono ancora di più; e non attengono solo alla geografia o alle abitudini; ma anche a quei due piccoli, trascurabili, insignificanti elementi di una democrazia liberale che si chiamano "etica e informazione". Il fatto che Rupert Murdoch sia stato costretto a chiudere lo storico settimanale britannico "News of the World" dopo lo scandalo delle intercettazioni illegali e l'arresto dell’ex direttore del tabloid e di un altro giornalista, ha scavato un baratro di polemiche sull'etica dell’informazione britannica e ha svelato il vero volto del mondo dei media; un volto che i polverosi difensori dell’ottocentesco "diritto all’informazione" hanno provato a nascondere fino ad oggi e non solo in Inghilterra. Ora, già il fatto che lì, un giornalista vada in galera per aver commesso un reato legato alla sua professione, lascia la stampa italiana stranamente silenziosa e imbarazzata; non si sentono commenti, valutazioni, né strali particolari contro il chiaro attentato alla libera stampa e il rumoroso silenzio di tutti di fronte a quello che sta succedendo in Inghilterra è quantomeno sospetto. E quando qualcuno parla, sarebbe meglio che stesse zitto, come nel caso di Piero Ottone che, intervistato su l’Unità, ha paragonato lo scandalo inglese al caso Boffo, che, ovviamente, con l’abuso di intercettazioni illegali che si fa anche in Italia, non c’entra assolutamente nulla. Bisogna dire, però, che anche in Inghilterra i teorici del giornalismo militante qualche castroneria la dicono. Peter Wilby sul Guardian, il quotidiano che ha denunciato con maggiore forza lo scandalo, si è affrettato a spiegare che comunque “il giornalismo non può funzionare secondo codici giuridici rigidi” e “deve operare a volte ai margini della legge e della moralità”. Ai margini sì, ma del tutto fuori, no; tra un giornalismo d’inchiesta e uno dal buco della serratura c’è una bella differenza.
E allora, in attesa di capire gli sviluppi delle vicenda, proviamo a riprendere il gioco delle differenze e sancire alcune cose: per esempio, che in Inghilterra i direttori di giornali che pubblicano intercettazioni illegalmente alla fine finiscono in galera, mentre in Italia vincono premi giornalistici e diventano campioni di moralismo.
Oppure che in Inghilterra i giornali che pubblicano intercettazioni illegalmente vengono chiusi dai loro stessi editori, anche se hanno 168 anni di vita, mentre in Italia diventano il fiore all'occhiello dei potentati editoriali.
O ancora, che in Inghilterra i giornali che pubblicano intercettazioni illegalmente perdono introiti pubblicitari, perché le grandi aziende si rifiutano di investire in un'informazione eticamente irresponsabile, mentre in Italia aumentano i ricavi pubblicitari perché vendono più copie.
Ma la differenza più eclatante che emerge da questa vicenda è che perlomeno l'Inghilterra, anche nell'immoralità, rimane un paese in cui capitalismo e impresa privata sono cose serie. Perché lì, le intercettazioni illegali se le pagano di tasca loro quelli che le pubblicano, come hanno fatto i responsabili del tabloid inglese assoldando detective e spioni privati o comprandole direttamente da poliziotti corrotti. Mentre in Italia le intercettazioni pubblicate illegalmente le paghiamo direttamente noi contribuenti, perché sono quelle che i magistrati raccolgono in massa per le inchieste ma che, seppure irrilevanti o addirittura da distruggere, finiscono, guarda caso, nei cassetti delle redazioni dei segugi di questo giornalismo da buco della serratura.

Per cui, dal nostro piccolo, lanciamo un appello: cari editori e giornalisti italiani, su una cosa prendete esempio dall’Inghilterra. Volete continuare a pubblicare intercettazioni illegalmente per vendere più copie, dietro la balla del "diritto all'informazione"? Va bene, ma almeno pagatevele da soli.
© Il Tempo, 12 Luglio 2011

05 luglio 2011

il piccolo giudice (una storia francese, molto italiana)

Il giudice francese Henri Pascal si troverebbe a suo agio nell’Italia di oggi, quella del circo mediatico-giudiziario, dei processi a mezzo stampa, dei teoremi giornalistici e delle intercettazioni pubblicate senza pudore. Fu lui, già negli anni ’70, ad affermare che “tutto può essere pubblico nel nostro lavoro. Dobbiamo realizzare l’istruttoria e giudicare tutto sotto il controllo pubblico”. Cosa non diversa da quello che sosteneva vent’anni prima il comunista Yves Péron, figura storica della Resistenza francese e già vicepresidente dell’Alta Corte di Giustizia, quando disse che “la giustizia, essendo fatta in nome del popolo, deve funzionare sotto il suo controllo, cioè sotto il controllo dell’opinione pubblica”. Tutto chiaro, tranne una cosa: qual è l’opinione pubblica? E’ ovvio, quella costruita dai giornali e dalla televisione, cioè dalla libera stampa. Quindi, ricapitolando, la giustizia deve essere sotto il controllo dell’opinione pubblica che è sotto il controllo dei media.
Dalla teoria alla pratica: il giudice Henri Pascal fu il protagonista di uno dei fatti di cronaca giudiziaria più controversi della storia di Francia. Nell’aprile del 1972, in un terreno alla periferia di Bruay-en-Artois, cittadina mineraria a nord della Francia, venne ritrovato il cadavere di una quindicenne del luogo, strangolata e mutilata. Sulla base di una testimonianza priva di riscontri oggettivi e contraddittoria, il giudice Pascal incriminò e arrestò il notaio del luogo, Pierre Leroy. In una città di minatori, il notaio rappresentava in qualche modo un potente da abbattere, l’intoccabile contro cui un giudice di provincia di 57 anni, forse un po’ frustrato e molto di sinistra, poteva pensare di costruire la sua immagine di paladino della giustizia pubblica. Il caso divenne immediatamente politico e il notaio Leroy il nemico di classe contro cui scatenare l’odio sociale. Aperta la gabbia mediatica, l’intera vita del notaio-mostro fu divorata dalle iene del giornalismo giustizialista che portarono nell’arena dell’opinione pubblica persino i suoi aspetti più intimi e personali. Il giudice Pascal iniziò ad invadere televisioni e giornali con interviste, dichiarazioni, foto che lo resero un eroe del suo tempo. E quando, dopo tre mesi, il notaio fu scarcerato per l’inconsistenza delle accuse, l’opinione pubblica, sempre quella, si costituì persino in un “Comitato per la verità e la giustizia” (ricorda qualcosa?), con a capo il minatore sindacalista Joseph Tournee, avversario politico di Leroy, che ebbe l’adesione persino di Jean Paul Sartre, il più insulso filosofo del ‘900 ma ottimo movimentatore di coscienze civili.
L’affaire di Bruay-en-Artois inaugurò in Francia quel rapporto perverso tra media e giustizia che ha avuto poi in Italia sviluppi straordinari e aberranti. Se il giudice Pascal avesse dovuto affrontare non un caso di omicidio nella Francia degli anni ’70, ma una lunga e laboriosa indagine nell’Italia degli anni 2000, non si sarebbe fatto pregare nell’uso di intercettazioni e nella loro pubblicazione. Perché la logica perversa di questa cultura ereditata da un’idea di democrazia del controllo, è che la pubblicità di un’indagine sarebbe addirittura garanzia di tutela per l’inquisito. In altre parole, sbattere il mostro in prima pagina è un favore che si fa al mostro per potersi difendere meglio e alla democrazia per meglio essere informata. Se poi domani il mostro non risultasse più tale il problema è solo suo (del mostro ovviamente!). Le idee del giudice Pascal sono identiche a quelle oggi diffuse in Italia dai dispensatori di intercettazioni e dai creativi dei teoremi giudiziari.
Il problema è che il mondo dei media si muove come un grande attrattore capace di manipolare la realtà e trasfigurarla. Una volta che il tuo nome è sparato sui media, dentro contesti precisi, la possibilità di modificare l’immagine è pressoché nulla, se i media stessi non lo vogliono. Daniel Soulez Lariviere, uno dei più prestigiosi avvocati francesi, già negli anni ’90, scriveva che “la verità mediatica resta più forte della verità vera”. E questo vale ancora di più al tempo di internet, dei motori di ricerca che fissano nel tempo la vita delle persone impedendo di modificare giudizi e profili. La presunzione d’innocenza diventa un optional e la garanzia di uno Stato di diritto, che prevede che pubblico sia solo il processo, un passatismo da vecchia democrazia novecentesca superata dalla nuova democrazia mediatica.
Media e giustizia non possono essere considerati ambiti separati ed autonomi l’uno dall’altro. Interagiscono tra loro creando un meccanismo vorticoso di condizionamento reciproco. E così, accade che il magistrato diventi giornalista, diffondendo informazioni che dovrebbero rimanere segrete; e il giornalista si faccia magistrato, mettendosi a costruire teoremi giudiziari sulla base di interessi politici dei grandi gruppi di riferimento o sulla base delle proprie paranoie. Da questo orrore guadagna il magistrato che si trasforma in eroe mediatico aumentando le proprie quotazioni in termini di carriera e protezione corporativa, e guadagna il giornalista, che si trasforma in un segugio ambito da giornali e talk-show. Ma da tutto questo cosa rimane della giustizia e cosa dell’informazione? Nulla.
Henri Pascal era soprannominato, per la sua altezza, “il piccolo giudice”. Sarebbe il magistrato ideale per questa piccola democrazia italiana ostaggio di una giustizia malata e di un giornalismo misero.
© Il Tempo, 1 Luglio 2011

22 giugno 2011

un Pdl senza coraggio

Gaetano Quagliariello, intervenendo nel dibattito sul centrodestra, ha affermato che dovremmo cominciare “col chiederci quale Pdl vogliamo”. E questa è già una discreta base di partenza per un partito che, da quando è nato, non si è chiesto mai nulla e soprattutto non ha permesso ad alcuno di chiedersi qualcosa. Nonostante la miriade di fondazioni ed improbabili think tank credo, a mia memoria, che nessun partito abbia mai goduto di un’assenza di dibattito politico e culturale interno e di una così spaventosa immobilità intellettuale come quella che ha caratterizzato, in questi anni, il Pdl. Il paradosso di questo partito, che ha voluto la parola libertà persino nel suo stesso nome, non è tanto l’assenza di libertà, quanto l’assenza del desiderio di libertà della sua classe dirigente
Se ne può attribuire la responsabilità al suo leader e al suo carisma totalizzante, ma sarebbe troppo semplice. La realtà è che in questi due anni, se una responsabilità Berlusconi ha avuto, è stata, al contrario, quella di essersi totalmente disinteressato allo strumento partito, delegandone ad altri la realizzazione, sottovalutandone la funzione politica in termini di costruzione di immaginario, aggregazione di segmenti sociali, selezione di classe dirigente e radicamento territoriale. Così facendo, ha consentito ad un’oligarchia famelica di prendere possesso del Pdl imponendo regole attraverso una costante assenza di regole
In questi anni abbiamo spesso sentito parlare, dai fumosi teorici del Pdl, di “partito leggero e carismatico” come segno distintivo di questo processo. Ma i partiti leggeri sono in genere riflessi di democrazie pesanti, in grado di costruire un rapporto diretto tra società politica e civile, tra classe dirigente ed elettorato; democrazie in cui la logica delle primarie è naturale. Invece, né partito pesante, né partito leggero, il Pdl è rimasto sospeso a mezz’aria, in balia del minimo soffio di vento contrario. Ma in natura, così come in politica, sfidare la forza di gravità è cosa impegnativa. Ci vuole innanzitutto la spregiudicatezza e il coraggio che molti dei politici del Pdl non hanno avuto. Le primarie, che questo giornale chiede a gran voce, sono esattamente la forza motrice necessaria a riportare in alto un Pdl che, come la mela di Newton, è caduto in testa ai suoi incauti scienziati e a quel popolo che continua a credere in una democrazia matura e bipolare.
La realtà è che questo partito oligarchico è anche il prodotto di un’assurda legge elettorale, che consegna nelle mani di burocrazie senza legittimazione il potere di costruire candidature e dirigere destini politici. Per questo, come ha ricordato Giorgia Meloni proprio sul Tempo, se la legge non cambia, le primarie sono ancor più necessarie.
Il sen. Quagliariello sostiene che la discussione sul Pdl non sarà rimandata alle calende greche e lo dimostra “la determinazione con cui il partito si è dotato di un segretario politico”. Ottimo. Ma se per questo il Pdl si è dotato anche di un “coordinatore alla Filosofia e ai Valori”, che neppure la sottocaricatura di un Soviet avrebbe mai potuto immaginare.
Uno dei maggiori filosofi contemporanei, Roger Scruton, scrive che “la società civile è duttile. Quanto lo sia dipende da come la si percepisce. E la si percepisce da come la si descrive. Per questo il linguaggio è uno strumento importante nella politica odierna”. Ecco: il linguaggio politico del centrodestra manifesta una totale assenza di percezione di come sta cambiando il paese e, forse, di come è già cambiato. Per questo, dopo la sconfitta elettorale, nel Pdl è rimasto tutto uguale. Eppure gli spazi della politica continuano a cambiare, cambiano le narrazioni che danno senso a nuove forme di partecipazione. La politica si incontra con una dimensione orizzontale offerta dai nuovi strumenti di comunicazione e dai nuovi linguaggi, che ne mette in discussione la verticalità.
Questi sono i momenti in cui, in politica, serve una cosa sola: il coraggio. Senza di questo nulla può essere cambiato. Occorre dire come stanno le cose: il Popolo della Libertà ha perduto la libertà e sta perdendo il suo popolo. Prima che al principale partito italiano rimangano solo “il” e “della”, c’è bisogno di un atto di coraggio della sua classe dirigente, politica ed intellettuale. A cominciare dalla scelta delle primarie.
© Il Tempo, 22 Giugno 2011
Immagine: Norman Rockwell, No swimming, 1921

19 giugno 2011

la politica si fa Rete

Ed improvvisamente la politica italiana ha scoperto internet. Come d’incanto si è accorta che la Rete non è più una realtà virtuale, ma una realtà, punto e basta. Uno spazio fisico ed un luogo simbolico nel quale prendono forma identità, si alimentano dinamiche sociali, si generano conflitti. In altre parole, la Rete è uno spazio politico.
Questo vale per la campagna elettorale di Obama costruita su Facebook e su You Tube, per le rivolte arabe in Tunisia ed Egitto alimentate dalla “generazione di twitter”, per le mobilitazioni sociali dei nuovi movimentismi come quello del Tea Party americano o quello degli “indignados” spagnoli, per il ruolo avuto dai social media durante l’ultimo referendum italiano. Vale, e varrà sempre di più.
Clay Shirky, su Foreign Affairs, ha spiegato che già oggi i social media permettono di adottare nuove strategie politiche e che, sempre più, queste strategie si riveleranno cruciali. E questo perché le reti digitali nel loro complesso consentono una maggiore diffusione delle informazioni, una maggiore facilità di interazione pubblica da parte dei cittadini e una grandissima velocità di coordinamento dei gruppi. E questo non da ora: nel gennaio del 2001, nelle Filippine, la notizia dell’assoluzione dal processo per corruzione del Presidente Estrada portò in piazza migliaia di cittadini indignati, mobilitati tramite sms, che divennero milioni nei giorni successivi; la capacità di mobilitazione immediata spaventò così tanto la Corte che, qualche giorno dopo, essa dovette rivedere il giudizio votando l’impeachment e costringendo Estrada alle dimissioni.
Anche in Italia, seppur timidamente, la Rete sta diventando uno spazio politico abitato soprattutto dai giovani che diventano i nuovi protagonisti di un ritorno alla partecipazione che la politica ufficiale, quella dei frequentatori di salotti televisivi o dei dispensatori di interviste cartacee, ancora non sa riconoscere. La Rete sfrutta il processo di disintermediazione attuato dalla rivoluzione digitale, che disarticola non solo i modelli di integrazione verticale del mercato, ma anche i modelli di organizzazione sociale. La disintermediazione comporta la crisi dei mediatori tradizionali che in politica vuol dire la crisi dei partiti, almeno per come li conosciamo noi dal ‘900.
Se, come ha spiegato Hanna Arendt, la politica è relazione, ogni relazione ha bisogno di uno spazio fisico dove realizzarsi e di un luogo simbolico dove immaginarsi. La Rete, interattiva e globale, è l’estrema frontiera di un nuovo modello relazionale e quindi politico.
Ogni rivoluzione sociale, ogni processo di trasformazione che genera cambiamenti radicali, prende forma all’interno di uno spazio fisico, che si trasforma anche poi luogo simbolico necessario a fissare l’immaginario condiviso. La politica stessa è nata all’interno della polis, spazio fisico e simbolico che metteva in relazione gli uomini e formava il corpo sociale.
Anche le rivoluzioni moderne hanno avuto bisogno di uno spazio fisico e di un luogo simbolico. Quando noi pensiamo alla rivoluzione industriale ci viene in mente immediatamente la fabbrica alla base dei mutamenti del sistema produttivo e dove si sono generati i conflitti sociali. Ma la fabbrica divenne anche il luogo dove il movimento operaio e quello sindacale costruirono la propria identità. Le rivoluzioni idealiste del primo novecento, che prepararono i fermenti politici e culturali del secolo, ebbero come spazio fisico e simbolico i caffè delle città europee, luoghi dove si cospirava, si scrivevano opere letterarie o liriche, si stabilivano accordi politici, si fondavano avanguardie, si elaboravano filosofie: luoghi dove, come ha scritto il filosofo George Steiner, si è “dato contenuto all’idea di Europa”. E il ’68, l’ultima grande rivoluzione politica dell’Occidente, non può essere pensato senza collegarlo alle Università e ai luoghi di produzione di quel sapere che i sessantottini volevano abbattere.
All’interno della rivoluzione digitale che sta modificando la nostra società dal profondo ed il modo in cui agiamo e pensiamo, la Rete è insieme polis (luogo di relazione), fabbrica (spazio di un nuovo sistema produttivo), caffè (luogo di nuova creatività) e università (spazio di nuovi saperi). La Rete sta diventando lo spazio politico per eccellenza.
Se i brontosauri della politica italiana, quelli del giornalismo di carta, quelli che continuano a menarla con Santoro si o Santoro no e che quando parlano d’informazione non vanno oltre il TG delle 20, neanche fossimo ai tempi di Carosello, non si accorgono dello tsunami che li sta investendo, il problema non è solo loro. Purtroppo diventa anche nostro. La Rete ha un volto oscuro che è impossibile ignorare. La sua dimensione totalmente orizzontale rende il confine tra politica e antipolitica molto labile. Ed il rischio è che la Rete, da spazio politico, diventi il regno dell’antipolitica. E questo serve alla democrazia?
© Il Tempo, 19 Giugno 2011
Immagine: Berenice Abbott, Court of the first model tenements in New York, 1937

13 giugno 2011

Così l'Europa uscirà dalla Storia...

Romano Prodi, qualche giorno fa, è stato categorico: chi mette in discussione l’Europa e alimenta l’euroscetticismo “non ha il senso della Storia”. Per i tecnocrati di Bruxelles e per i loro referenti politici (e Romano Prodi è uno di questi), il “senso della Storia” è l’estrema difesa dietro la quale riparare il progetto di integrazione europeo dallo tsunami che rischia di investirlo. Perché per ora, chi sta uscendo dalla storia è proprio l’Europa, arrivata al suo punto di non ritorno. La crisi finanziaria, quella economica, la debolezza della sua politica nello scacchiere globale, i processi di disgregazione sociale indotti dall’immigrazione e dalla perdita delle identità e l’espandersi incontrollato di un Moloch burocratico che svuota la democrazia di ogni funzione rappresentativa, danno la percezione che il progetto di integrazione sia un grande esperimento di laboratorio mal riuscito; un esperimento costruito sulla pelle dei cittadini e dei popoli europei che ne pagano ora le conseguenze in termini di impoverimento reale, di coesione sociale e di visione del futuro.
Qualsiasi progetto storico si fonda su un principio di autorità riconosciuto e condiviso che è alla base del patto sociale. Esso fonda l’appartenenza, legittima la partecipazione e garantisce la rappresentatività di chi governa. In assenza di un’autorità riconosciuta, un progetto storico non genera libertà ma la nega. Chi ha costruito l’Europa in questa maniera, ha fatto in modo che le forme di governo reale fossero invisibili, l’autorità impalpabile e un’anonima elite tecno-finanziaria condizionasse le dinamiche politiche attraverso lo strumento della moneta unica e lo svuotamento di ruolo e funzione dei governi nazionali. L’antropologa Ida Magli, da sempre contraria a questo processo di unificazione europea, sottolinea come la perdita del “vincolo esterno” di un’autorità legittimata, svuoti il potere trasformandolo in qualcos’altro. In Europa, questo altro è la mastodontica Burocrazia che ingessa la vita degli europei e la sottopone ad un controllo continuo fatto di regole, costrizioni e pagelle.
Hermann Van Rompuy, il Presidente dell’Unione Europea, in una recente intervista ha dichiarato che il Parlamento europeo, che ormai “decide su tutto”, è uno “dei più potenti parlamenti del mondo perché non deve sostenere alcun governo”. Ecco svelata la mostruosità di Bruxelles. Se non c’è un governo, non esiste un potere legittimo. L’Europa non è una democrazia sovrana ma una democrazia regolatoria, che schiaccia i suoi cittadini sotto un totalitarismo burocratico che s’insinua in ogni aspetto dell’esistenza arrivando a normare, per esempio, i “valori massimi di oscillazione della mano e del braccio nell’uso del martello pneumatico” o a costituire organismi surreali come l’Eu-Osha, per la sicurezza sul lavoro, controllato da 84 consigli di amministrazione.
Per sostenere questa impalcatura spietata di burocrazia e di potere, a Bruxelles hanno persino coniato un nuovo tipo di lingua. Uno dei più brillanti filosofi contemporanei, Roger Scruton, ha esaminato con attenzione ciò che lui ha chiamato “Eurocratese”, la neolingua delle elite europee, funzionale, al pari di quella evocata da George Orwell, “non a descrivere la realtà ma ad affermare il potere sopra di essa”. L’eurocratese serve a conservare il sistema di privilegi su cui si fonda il dominio in Europa e per questo deve risultare incomprensibile e misterica ed in grado anche di modificare il senso delle cose. L’eurocratese è lo strumento privilegiato per impedire ai cittadini di partecipare e rendersi consapevoli dei processi decisionali.
Persino un pensatore “europeista” come Jürgen Habermas, ha dovuto ammettere che “l’integrazione europea, da sempre portata avanti senza la partecipazione del popolo, si è infilata in un vicolo cieco”.
La natura realmente non democratica dell’Unione Europea diventa oggi, però, il rischio maggiore per le elite di Bruxelles. Se l’assenza di partecipazione e di coinvolgimento di cittadini e di comunità ha consentito al potere burocratico di definire linee politiche ed economiche in maniera del tutto autoritaria, l’assenza di legittimità diventa oggi per esso il primo pericolo. Molti economisti prevedono che la crisi finanziaria scoppiata in Grecia si possa allargare ad altri paesi a meno che Bruxelles non imponga un nuovo pacchetto di aiuti che contrarrà l’economia dell’eurozona per anni. La possibilità di default dell’euro è reale. Lo scollamento tra cittadini europei e burocrazia di Bruxelles renderà sempre più difficile far accettare ricette economiche e finanziarie penalizzanti, soprattutto in virtù del fallimento che queste hanno già dimostrato.
La consapevolezza di non contare nulla nei processi decisionali a livello europeo e la percezione che i governi nazionali ormai non sono altro che revisori dei conti di agenzie internazionali di rating e potentati finanziari, rende lo spirito democratico europeo orfano della sovranità.
L’euroscetticismo dilaga non più legato a marginali proteste nazionali, ma come consapevolezza diffusa dell’imbroglio che in questi anni ha tenuto ostaggio l’economia dei popoli europei e la loro stessa possibilità di esprimere democraticamente una politica e un destino. Non più rinchiusi dentro partitini xenofobi, i movimenti antieuropeisti si sviluppano dal nord al sud dell’Europa; trovano sbocco nelle competizioni elettorali divenendo componenti fondamentali dei governi nazionali (come in Finlandia e in Olanda) o prendono la forma di movimenti d’opinione radicati e capaci di influire nell’opinione pubblica (come nel caso degli Indignados spagnoli). Attraversano i vari segmenti sociali e si mescolano alle diverse famiglie politiche. Un sondaggio su Le Monde ha rivelato che in Francia oltre il 50% degli elettori di sinistra sarebbe favorevole ad abbandonare l’Euro. Altro che movimenti populisti di estrema destra. L’antieuropeismo si trasforma sempre più in una sensibilità diffusa di una nuova politica legata ai bisogni del territorio, alla difesa delle identità e all’idea di una libertà garante dei nuovi diritti dell’individuo e della comunità.
Il richiamo romantico all’Europa pensata dai padri fondatori non regge più. E’ troppo evidente l’abisso che divide il sogno carolingio di Adenauer, Schuman e De Gasperi, dalla ragnatela messa in piedi a Bruxelles. Anche il tentativo di spiegare la necessità di questa Europa come lo strumento necessario a difendere le nazioni europee dall’impatto della globalizzazione, appare meno credibile: è proprio la globalizzazione dei mercati che la sta spazzando via.
La realtà è quella che ha scritto Leon de Winter su Der Spiegel: “l’Europa non esiste. E’ solo il chiodo fisso dei burocrati di Bruxelles”. Se l’Europa di Bruxelles non esiste forse potremmo iniziare a farne consapevolmente a meno. E magari cominciare a pensare a come costruire l’Europa dei popoli.
© La Padania, 12 Giugno 2011
Immagine: Piet Mondrian, Albero grigio, 1911

01 giugno 2011

i "cinipidi" del Pdl

Il cinipide è un piccolo insetto nero, che da anni fa strage di castagni in Piemonte, Toscana e in buona parte del resto d’Italia. Quando aggredisce, per la pianta non c’è scampo. All’inizio il castagno colpito non presenta alcun sintomo particolare, anzi l’albero, da fuori, appare rigoglioso e forte; eppure all’interno, le larve dell’insetto si sviluppano e crescono silenziose e invisibili. Solo quando arriva la primavera, sulle gemme e sulle foglie compaiono delle orribili escrescenze tonde e lisce che le deformano. E’ il segnale che il cinipide ha ormai invaso la pianta e per l’albero può iniziare una lenta agonia che lo porterà a divenire infruttifero, cosa che per un albero è leggermente umiliante.
Qualcuno si chiederà: ma questo è un editoriale politico o un articolo di agricoltura? E’ un editoriale politico, ovviamente, ma in un paese in cui molti politici sono braccia rubate all’agricoltura, parlare di politica attraverso il cinipide del castagno ci sembrava un’idea folgorante. La realtà è che il povero editorialista politico che da due anni scrive sulla crisi del Pdl, sulla necessità di riformare quel progetto, e lo fa sull’unico giornale di centrodestra che ha saputo sposare posizioni critiche e lucide sul carosello farsesco di cui Berlusconi si è circondato, non sa più cosa inventarsi per farsi ascoltare. Ma dopo che ieri, il direttore Mario Sechi, ha chiesto a gran voce le dimissioni dei vertici del Pdl e condannato “l’oligarchia senza voti e spirito” che si è impossessata del partito, il bravo editorialista politico prende la palla al balzo e rincara la dose; perché, a ben vedere, un parallelismo tra il Pdl e il castagno agonizzante, c’è. Un albero che non da frutti è come un partito che non prende voti; alla fine a che serve? L’albero a fare ombra, ma un partito?
La realtà è che, al pari dei castagni toscani e piemontesi, anche il Pdl si è riempito, in questi anni, di cinipidi. E ora se ne vedono le conseguenze. I pochi che avevano avvertito il pericolo sono stati mandati a coltivare cipolle, mentre la colonia di cinipidi si è ingrandita prendendosi sempre più potere, visibilità e spazio decisionale. Ha sfruttato la distrazione, la debolezza dell’organismo vivente aggredito, la sua giovane età (in fondo l’albero del Pdl ha appena due anni). E così, pezzo dopo pezzo, il Pdl è stato invaso da una colonia di insetti che lo hanno massacrato. Ora Berlusconi si ritrova con un albero infruttifero, debole e cadente.
Il rischio, lo abbiamo già detto altre volte, è più grande di quanto Berlusconi immagini. Il suo ruolo, nella storia politica del paese, è legato indissolubilmente alla creazione del bipolarismo italiano, di cui, l’albero del Pdl, doveva essere l’asse centrale. Se il Pdl smette di fare frutti (cioè cessa di raccogliere consensi, intercettare segmenti sociali, interpretare mutazioni, selezionare classe dirigente vera e non cinipidi) l’intero sistema politico viene meno, non solo il centrodestra. Ma se il bipolarismo muore, Berlusconi non ha più ragione di esistere; nella palude di una nuova frammentazione politica, la sua traccia narrativa si decompone e scompare. Per questo Berlusconi non può permettersi che il Pdl marcisca.
Gli esperti arboricoltori spiegano che ci sono solo due modi per combattere il cinipide: o tagliare l’albero e bruciarne il tronco per evitare che l’epidemia si propaghi, oppure coltivare una colonia di “antagonisti naturali”, come il torymus sinensis, insetti ectoparassiti che una volta liberati nell’aria, sono in grado di divorare il cinipide e salvare la pianta. Anche Berlusconi ha solo due possibilità per salvare il progetto del centrodestra, prima che le larve parassite lo riducano in polvere: o tagliare di netto l’albero del Pdl, bruciarne la carcassa e piantarne uno nuovo. Oppure, liberare nell’aria una colonia di “antagonisti naturali”, una nuova, giovane, agguerrita e selezionata classe dirigente in grado di mangiarsi i vecchi e ostinati cinipidi che non ci pensano proprio a mollare le foglie che stanno divorando. Dopo il presidente operaio, è arrivato il momento del presidente agricoltore.
© Il Tempo, 1 Giugno 2011

23 maggio 2011

se il Pdl implode...

Indipendentemente da come andranno i risultati dei prossimi ballottaggi, rimane un dato politico su cui bisognerà riflettere dal giorno dopo le battaglie di Milano e Napoli: e questo dato rappresenta la chiave interpretativa sul futuro del centrodestra italiano, molto di più della questione sulla tenuta del governo e della maggioranza. Il dato politico è il costante ed inesorabile liquefarsi del Pdl; un processo di disidratazione che non è certo imputabile all’arrivo del primo sole estivo. La sconfitta elettorale del centrodestra rischia di passare in secondo piano rispetto al peso storico che potrebbe avere l’implodere definitivo del partito dopo le elezioni. I segnali ci sono tutti e da molto tempo.
L’esempio più tragicomico è avvenuto proprio nel Lazio, dove il sindaco di Roma Alemanno, uno degli uomini forti del Pdl, ha appoggiato i candidati della lista della governatrice Polverini (eletta con i voti del Pdl) contro i candidati del Pdl. Risultato: in importanti città dove il centrodestra poteva vincere al primo turno, andranno al ballottaggio due candidati di centrodestra. Alemanno ha spiegato che questo è il nuovo laboratorio politico del Lazio. Ma più che un laboratorio sembra un manicomio.
La realtà è che da tempo il Pdl è fuori controllo, sottoposto a conflitti, defezioni, ricatti, fratture e inadeguatezze che, con ogni probabilità, aumenteranno nelle prossime settimane facendo emergere con forza l’errore strategico di chi ha sottovalutato l’importanza del partito come spazio necessario alla mediazione e alla ricerca del consenso.
I teorici del “partito leggero”, coloro che l’hanno voluto privo di reale organizzazione, fragile nella capacità di radicamento e incoerente in quella decisionale, l’hanno costruito come una struttura cava, vuota, funzionale ad essere comitato elettorale nei periodi di guerra (elezioni) e comitato d’interessi nei periodi di pace
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La realtà è che un partito non può essere leggero perché la sua funzione è troppo importante negli equilibri di una moderna democrazia: serve ad attrarre e selezionare classe dirigente, ad intercettare la frammentazione sociale riconducendola ad interessi coerenti di categorie o gruppi di cittadini, a radicare nel territorio aree di consenso, a orientare l’attività del governo accorciando la distanza tra politica e società civile. Per riuscire in questo, un partito moderno ha bisogno di democrazia interna, strutture, regole chiare, gerarchie non imposte, pluralismo, capacità di presenza territoriale. Esattamente tutto ciò che non ha il Pdl.
In questi quindici anni il tratto identificativo della grande intuizione berlusconiana è stato la nascita del sistema bipolare, e con esso di una democrazia finalmente matura, capace di sintetizzare nella dimensione politica la complessità di un paese non più rappresentato dai vecchi partiti ideologici. Fu all’interno di questo bisogno di bipolarismo che nacquero le visioni liberali di uomini come Martino o Pera (oggi non a caso relegati ai margini del Pdl dai nuovi padroni del vapore berlusconiano), i percorsi identitari della nuova destra italiana o quelli riformisti che a tratti, a sinistra, hanno cercato di percorrere. Il Pdl intuito dal Cavaliere doveva essere lo strumento per trainare l’Italia dentro un bipolarismo completo, che sconfiggesse la logica perversa del pro o contro Berlusconi. Non essere riuscito in questo è stato il più grave errore suo e della sua classe dirigente. L’epopea berlusconiana non finirà per mano giudiziaria o per complotti mediatici. Ma può finire se questo sistema bipolare dovesse esplodere, riportando l’Italia dentro il pantano politico di una frammentazione di piccoli ed egoistici partiti. Questo sarebbe l’esito più grave della fine del Pdl.
© Il Tempo, 23 Maggio 2011

18 maggio 2011

piccoli berluschini (non) crescono

Vecchi e giovani berluschini crescono, implacabili imitatori del leader maximo ma senza averne il carisma, né la capacità di autoironia, né sopratutto l’empatia trascinante che è tuttora la chiave vincente del suo modello comunicativo. Li vedi scatenarsi soprattutto nei periodi di campagna elettorale, quando la qualità del dibattito cala ed il tono della comunicazione politica assume aspetti goliardici o addirittura trash. Nell’enfasi del conflitto e della guerra totale, con le categorie di amico e nemico che perdono la loro relatività e diventano assolute, si consumano allusioni pesanti, attacchi, prese di posizione e dichiarazioni al limite dell’horror. Ma se a Berlusconi si possono perdonare barzellette o battute in discesa (quelle a sfondo sessuale, quelle sulle donne di sinistra o quelle sui magistrati) se non altro perché nascono da una personalità unica, complessa e sicuramente non riducibile al “battutismo militante” su cui sembra schiacciata la politica del nostro tempo, la stessa cosa non si riesce proprio a fare ai miracolati del berlusconismo: quella generazione di politici che pensano che il miglior modo per sembrare degni del ruolo che solo al Cavaliere devono, sia prendere il peggio di lui piuttosto che il meglio. E così se Berlusconi dice che le donne del Pdl sono più belle di quelle del Pd, ecco giù una sfilza di dichiarazioni dei replicanti di turno su quanto sono racchie le elette di sinistra ed avvenenti quelle di destra. Se Berlusconi attacca con violenza i magistrati definendoli “cancro della democrazia”, subito arriva il replicante governativo, per il quale la magistratura diventa addirittura una “metastasi”.
L'imitazione accompagna come un'ombra da sempre le leadership; gli antropologi hanno spiegato che la mimesis è la base di quel comportamento emulativo che genera innovazione e, in alcuni casi, conflitto (la “violenza mimetica” di cui parla René Girard). Non solo in politica, ma anche in economia l’imitazione è la via più rapida per innovare. Quello che è un comportamento biologico e naturale finalizzato all’evoluzione della specie, diventa anche comportamento sociale finalizzato all’evoluzione dell’insieme collettivo. Ma ogni imitazione deve introdurre elementi di novità e originalità. Si imita un modello e lo si supera garantendosi l’appropriazione del ruolo e l’adattamento migliorativo delle funzioni. Anche per la politica dovrebbe funzionare così. Il problema si pone quando, del tutto sottomessi ad una logica mediatica che riduce la profondità della politica all’apparenza e il contenuto all’apparire, i politici di centrodestra si affannano ad inseguire Berlusconi su un terreno che può essere solo il suo: quello della dissacrazione della ritualità politica e della rottura degli schemi comunicativi classici. Qui si pone un tema su cui, nel centrodestra, dovrebbero iniziare a riflettere; perché tra imitare e replicare c’è una differenza di specie: imitare è tipico degli uomini, replicare è tipico dei pappagalli. La questione scivola così dall’antropologia all’etologia (la scienza che studia i comportamenti animali), dal regno dell’agire umano al regno animale. I pappagalli usano la loro capacità di fonazione quando sono in cattività: chiusi in una gabbia, replicano la voce umana per attirare l’attenzione del loro padrone, avendo imparato che vocalizzare aumenta l’interesse nei propri confronti. Alcuni dei politici di centro-destra sembrano essere proprio questo: non imitatori di un modello politico di riferimento cui agganciare elementi innovativi, ma variopinti pappagalli impegnati ad attirare l’attenzione del loro ammaestratore, replicandone la voce.
La questione non si pone a sinistra, perché da quelle parti non esiste alcun centro attrattivo dotato di potenza d’immagine simile a quello di Berlusconi. L’assenza di un modello da imitare spiega perché da quelle parti l’evoluzione si sia arrestata e la sinistra italiana sia abitata da giganteschi brontosauri, intellettuali e politici, in via d’estinzione.
A destra, invece, le possibilità evolutive ci sono, eccome. Basta che i leader del Pdl la smettano di fare i pappagalli e tornino dentro sembianze umane, provando anche a pensare, con coraggio, a quale centrodestra immaginano per il futuro e per il dopo. Perché un berlusconismo, senza Berlusconi, pieno di piccoli berluschini nei modi e nei linguaggi, è un orrore caricaturale, che tutti noi vorremmo vederci risparmiato.
© Il Tempo, 13 Maggio 2011
Immagine: Albert Ludovici, The parrot house London zoo, 1862