20 aprile 2011

travagliate

Vanity Fair intervista Travaglio.
Notizia nr. 1: Travaglio è di destra. Anzi, sarebbe un conservatore se vivesse all’estero.
Notizia nr. 2: qualche sprazzo di destra come la intende lui, da noi c’è stata: per esempio Romano Prodi.
Notizia nr. 3: Travaglio scrive su giornali di sinistra perché i lettori "sono meglio della loro classe dirigente. Più aperti”.

Alla fine capisci che non c’è limite a quanto si possa prendere per il culo il prossimo...

18 aprile 2011

Asor Rosa e le utopie

Non ci provate, a liquidare la questione come un caso di demenza senile. Troppo facile, ora, farlo passare per il nonnetto rincoglionito della famiglia; quello seduto in poltrona con il plaid sulle ginocchia e il cornetto all’orecchio. Quello che quando gli chiedete: “Nonno, hai preso la pasticca?” lui risponde ad alta voce: “Garibaldi era una bella persona!”. Ecco, non ci provate a farci credere che il professor Asor Rosa, nume tutelare del comunismo italiano, sia uno così. Ma state scherzando? Solo perché ha detto che ci vuole uno “stato di emergenza” che, attraverso carabinieri e polizia, “sospenda tutte le immunità parlamentari, restituisca alla magistratura le sue capacità e possibilità di azione, stabilisca d’autorità nuove regole elettorali”, voi lo volete rinchiudere a Villa Arzilla? Non ci provate, perché il prof. Asor Rosa è lo stesso che qualche tempo fa, davanti a tutto il gotha dei vostri più giovani intellettuali (da Ettore Scola a Franco Ferrarotti, da Giorgio Valentini a Walter Veltroni), celebrava l’ultima fatica filosofica di Eugenio Scalfari, che ha dieci anni più di Asor Rosa e parla di sé per parlare di Dio.
Anche perché basta leggere l’intervista che Asor Rosa ha rilasciato sul Manifesto dopo le sue dichiarazioni golpiste, per spiegare meglio quello che Ezio Mauro ha definito “da un punto di vista democratico, tecnicamente un’imbecillità” (ma solo tecnicamente). Un’intervista esilarante in cui ha citato De Gaulle (si, proprio De Gaulle!), passando dal golpismo al gollismo con la facilità con cui Fini è passato dai berretti verdi di John Wayne ai cappellini viola di Di Pietro. Ha detto che questa crisi della democrazia è accaduta perché i partiti comunisti italiani non sono più in Parlamento (sorvolando sul fatto che in Parlamento non ci sono perché la gente non li ha votati). Eppoi ha svelato che il suo era un paradosso, per porre il problema vero: “come si fa ad impedire che la democrazia distrugga se stessa con la forza della maggioranza?” Tecnicamente parlando, per dirla con Ezio Mauro, è semplice: cambiando maggioranza.
Io che non sono un intellettuale, né parlo di me per insegnare a Dio, provo a leggere Asor Rosa dal mio punto di vista, da quello della mia storia personale. E allora mi viene da ricordare che quelli come me la democrazia l’hanno imparata dai bastoni democratici degli antifascisti di papà; quelli che, all’università di Roma, prima andavano a lezione da Asor Rosa e poi venivano ad insegnarci come funzionava la democrazia nata dalla Resistenza nascosti sotto caschi e passamontagna (come è accaduto ancora qualche giorno fa); e alla fine, ci davano pure dei golpisti (cosa che oggi suona molto ironica). E ricordo che noi, giovani studenti di destra, con santa pazienza, molte idee e tanta ironia, avevamo già capito che la democrazia di Asor Rosa e dei suoi nipotini, il loro antifascismo imbalsamato, erano cose troppo seriose per prenderle sul serio.
Oggi che io sono solo un po’ più maturo e Asor Rosa è solo molto, molto più vecchio, mi sorge un sentimento di pietas che allargo a tutti questi grandi vecchi che alimentano l’odio in questo paese: Scalfari, Eco, Dario Fo, Flores D’Arcais, Barbara Spinelli, Furio Colombo e tutti gli altri che sbrodolano giudizi e verità dentro la cloaca mediatica che in-forma questo paese. Forse sono più da compiangere che altro, perché dev’essere veramente brutto invecchiare così male. Nel loro tramonto irrisolto, nel fallimento delle loro utopie dolorose, i grandi profeti di questa sinistra rimangono patetici e consumati testimoni della loro illusione esaurita. Non vanno presi tanto sul serio. Ci pensano da soli a farlo.
© Il Tempo, 18 Aprile 2011
Immagine: Renato Guttuso, I funerali di Togliatti, 1972

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11 aprile 2011

L'incomprensibile "Dottrina Obama"

Quando, all’inizio della crisi libica, il presidente Obama ha dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero mai inviato truppe di terra per abbattere il regime di Gheddafi, furono non pochi coloro che al Pentagono si misero le mani nei capelli e scossero sconsolati la testa. Una delle regole fondamentali della strategia militare dice infatti che la minaccia di intensificazione del conflitto da parte di chi ha forza superiore, può condurre ad una stabilizzazione; questo perché la minaccia è un elemento di deterrenza capace di limitare l’espandersi del conflitto stesso. Per questo, le dichiarazioni di Obama hanno rafforzato psicologicamente Gheddafi più di quanto lo abbiano indebolito militarmente i bombardamenti della Nato.
Obama non è riuscito a risolvere la contraddizione di fondo della sua dottrina. Il richiamo costante al ruolo delle Nazioni Unite e la retorica multipolare hanno generato un cortocircuito tra i mezzi consentiti dall’Onu e gli obiettivi politici dichiarati (in primis la rimozione del regime di Gheddafi); la ormai nota Risoluzione 1973, rivendicata come una propria vittoria diplomatica, ha creato fin dall’inizio forti problemi nella gestione della crisi libica, tanto che su Foreign Policy, analisti come John Yoo e Robert Delahunty l’hanno definita una vera e propria “camicia di forza alle scelte militari e politiche degli Stati Uniti”. La Risoluzione, ricordiamolo, non autorizza ad abbattere il regime di Gheddafi né ad addestrare ed armare i ribelli, tanto che, come scrive oggi il Guardian, i britannici stanno pensando di assoldare loro stessi truppe mercenarie o compagnie di sicurezza private da affiancare agli insorti; la Risoluzione, inoltre, non autorizza il sequestro delle aree petrolifere vitali per l’economia mondiale, che di fatto potrebbero essere danneggiate da Gheddafi come provò a fare Saddam in Kuwait, né la distruzione degli arsenali chimici del colonnello, tranne che nel caso di loro utilizzo. Addirittura la risoluzione sembra affermare l’obbligo della coalizione ad intervenire contro i ribelli stessi nel caso siano loro a colpire la popolazione civile. Come potesse una Risoluzione del genere consentire di realizzare gli obiettivi politici prefissati (cioè la caduta di Gheddafi), neanche Obama ha mai potuto spiegarlo. E infatti oggi, la decisione di defilarsi dalle operazioni libiche, limitandosi ad un’azione di appoggio e lasciando di fatto il comando operativo a Gran Bretagna e Francia appare come una frettolosa risposta a una paura che si stava diffondendo in America: e cioè che la “periferica” Libia creasse un’impasse militare e strategica di lunga durata, capace di distogliere risorse e impegno dalle crisi che stanno affacciandosi nei Paesi del Golfo Persico, quelli sì, centrali per gli interessi strategici americani.
Sul Washginton Post, la giornalista Tara Bahrampour, in un reportage da Bengasi, ha descritto come le stesse forze degli insorti libici stiano ormai organizzandosi economicamente e socialmente all’idea della divisione in due stati, abbandonando l’ipotesi del regime change perseguita fin dall’inizio dal Presidente americano e da Hillary Clinton e tuttora ribadito a parole.
Nel primo, vero banco di prova della sua politica estera, l’amministrazione americana non sembra essersela cavata molto bene. La sensazione è che la famosa “dottrina Obama” nessuno sappia veramente cosa sia, forse neppure Obama.
Kathleen McFarland è stata l’assistente dell’ex Segretario della Difesa Weinberger; fu lei a scrivere, nel 1984, il famoso “Discorso sui Principi di guerra” che divenne la base della dottrina Reagan del contenimento. Ironizzando sulla concezione limitata di Obama (missioni limitate, uso della forza limitato, ruolo nelle coalizioni limitato) ha avvertito l’America del rischio di affrontare la politica estera con improvvisazione  citando una fondamentale verità che vale per la vita degli uomini così come per quella delle nazioni: “se tu non sai dove devi andare prima di partire, non saprai mai dove sei arrivato”. Forse questo è il vero problema di Obama.
© Pubblicato su  Il Tempo, 9 Aprile 2011
Immagine: Rob Amberg, Mars Hill College

08 aprile 2011

Se l'America rischia di "chiudere"

Immaginate un Paese, una grande nazione moderna, il cui Governo inizia una corsa contro il tempo per evitare che 800.000 dipendenti statali rimangano senza stipendio; o che i soldati impegnati nelle missioni di guerra non ricevano la paga; o che i prestiti pubblici per le piccole e medie imprese vengano improvvisamente sospesi; o che migliaia di documenti d’identità (passaporti, visti) non vengano più rilasciati; o che i concorsi pubblici o le assunzioni già definite vengano annullate. Quale Paese vi immaginate possa correre un rischio del genere? L’Egitto, la Tunisia o la Libia sconvolte da rivoluzioni e guerre civili? La Grecia già in bancarotta? Il Portogallo sotto tiro delle agenzie di rating internazionale? O magari la solita Italietta delle finanziarie capestro? Nessuno di questi. Il Paese che rischia questa paralisi è, niente di meno, che l’America di Barak Obama. E non è uno scherzo.
Tecnicamente si chiama “shutdown”, letteralmente vuol dire “arresto”. Ciò che rischiano gli Stati Uniti nelle prossime ore è il blocco di molti servizi pubblici e delle attività governative nel caso in cui non venisse approvato il bilancio federale 2011 da parte del Parlamento. Ed è il primo risultato del conflitto inevitabile tra Obama e John Boehner, il Presidente della Camera a maggioranza repubblicana. In ballo ci sono circa 7 mila miliardi di dollari che la destra vorrebbe ulteriormente tagliare su un piano decennale di spesa che il Governo aveva fissato a circa 46 mila miliardi. La questione non è di poco conto, perché rischia di creare un problema drammatico alla vita del paese e di paralizzarlo.
In realtà non sarebbe la prima volta che l’America conosce uno shutdown. Il più recente e clamoroso fu quello del 1995 con una situazione politica del tutto simile a quella attuale: un Presidente democratico, Bill Clinton, e un Congresso a maggioranza repubblicana, presieduto da Newt Gingrich, oggi uno dei maggiori oppositori di Obama. Lo shutdown avvenne quando, di fronte al rifiuto di Clinton di aumentare i tagli su sanità, servizi sociali e ambiente, i repubblicani di Gingrich votarono contro l’aumento del limite di debito del Tesoro, necessario per governare il paese in fase di deficit. Dopo un primo arresto di 6 giorni, lo shutdown si riverificò per 15 giorni tra fine Dicembre 1995 e inizi Gennaio 1996. I giudizi politici sugli effetti di questa decisione sono controversi e animano tuttora il dibattito americano. Per molti, fu proprio l’ostinazione repubblicana a consentire la rielezione dello stesso Bill Clinton pochi mesi dopo. Qualche giorno fa, però, sul Washington Post, lo stesso Gingrich ha rivendicato i meriti della sua battaglia politica, che avrebbe portato alla più grande diminuzione di spesa pubblica dal 1969, rafforzando il servizio sanitario nazionale e consentendo, da lì a breve, il primo taglio di tasse dopo 16 anni.
Oggi la situazione sembra più fluida. Governo e opposizione hanno 24 ore per scongiurare questo evento, che, secondo un sondaggio trasmesso dalla Cnn, il 60% degli americani non vuole. Come sottolinea il New York Times, attorno al rischio di shutdown, il destino di Obama si intreccia con quello del suo rivale Boehner, che nel ’96 era il giovane assistente di Gingrich. Obama si gioca in patria la credibilità di presidente pragmatico che sta perdendo in politica estera; Boehner, si gioca la leadership dentro il Partito Repubblicano, come mediatore tra l’anima più tradizionale e il radicalismo movimentista del Tea Party.
In attesa di capire se da qui a qualche ora l’America sarà costretta a fermarsi, chiudendo musei, parchi pubblici o bloccando i rimborsi fiscali, si prova a fare i conti su quello che potrebbe succedere. Solo nella città di Washington, il blocco di tutti i servizi pubblici potrebbe comportare una perdita compresa tra il milione e mezzo e i cinque milioni di dollari la settimana.
Certo che all’inizio della nuova campagna elettorale per le presidenziali del 2012 il clima politico americano s’infiamma. Vincent Gray, il sindaco della capitale americana ha avvertito che in caso di shutdown la pulizia delle strade e la raccolta dei rifiuti verrebbero sospese. Chissà se il rischio di vedere Washington come Napoli o la Statua della Libertà con il cartello “closed for shutdown” danneggerà più Obama o i repubblicani.
© Il Tempo, 8 Aprile 2011