16 marzo 2010

Un percorso senza sostanza

di Giampaolo Rossi
Un lucido vecchietto di nome Ernst Jünger descrisse il manifestarsi del nichilismo come un irreversibile processo di “svanimento” di ogni sostanza capace di dare senso al divenire della storia. Il riferimento a Jünger è solo uno spunto per descrivere il percorso politicamente nichilista, cioè privo di sostanza, che Gianfranco Fini sembra aver intrapreso in questi anni. Ma qui più che di svanimento, dovremmo parlare di “svuotamento”. Il leader della destra italiana si muove attraverso un perimetro costante: la creazione di contenitori nuovi, strumentali a limitate fasi storiche e a guerre di posizione, in un processo di progressiva riduzione di visione e svuotamento di contenuti.
Da capo di un partito ideologico a forte identità (il Msi), a capo di un partito post-ideologico (An), poi a capo di una fondazione metapolitica dentro il Pdl (FareFuturo) ed oggi a capo di una scalata ostile al berlusconismo (Generazione Italia) che più che altro sembra una protocorrente interna con un piede fuori. Questo perché, nonostante le molte rassicurazioni, in questi mesi i dirigenti vicini a Fini hanno continuato a ritenere il Pdl un incidente di percorso. Del resto, la svolta del predellino stomacò talmente l’allora leader di An da spingerlo a definirla una “comica finale”, affermando che mai avrebbe sciolto An per entrare nel nuovo partito. Salvo poi farlo.
L’attitudine a sciogliersi in qualcos’altro senza scegliere mai veramente andrebbe perlomeno problematizzata da Fini e dai suoi intellettuali. Altrimenti rischieranno di cadere nello stesso errore sinistro che ha accompagnato la parabola fallimentare della gauche italiana: la convinzione, cioè, che siano i contenitori, e non i contenuti, a generare la politica. Negli ultimi trent’anni la sinistra ha attraversato i cambiamenti del nostro tempo con una pluralità di sigle (Pci, Pds, Ds, Ulivo, Unione, Pd), ma con la stessa classe dirigente e il solito assunto intellettuale, carico di astrazione e di utopia, per cui non è importante leggere la realtà ma costruirsi un bel riparo da essa. Ma un contenitore senza contenuto è solo un vuoto a perdere. E siccome il contenuto, in politica, si lega necessariamente ad una identità (parola ormai pornografica per gli intellettuali di Fare Futuro) viene da chiedersi quale sia l’identità capace di generare contenuto in questa nuova destra un po’ vecchiotta nelle sue pretese eretiche e avanguardiste. Alla sovraesposizione mediatica che la componente finiana ha avuto in questi mesi grazie alle provocazioni culturali e alle bizzarre iniziative politiche, ha corrisposto una marginalizzazione all’interno del Pdl e nell’elettorato di centrodestra. Ovvio, perché la destra che oggi disegnerebbero i finiani, è quella che concede cittadinanza veloce e voto immediato agli immigrati, affronta la complessità dei problemi etici indotti dall’irruzione titanica della tecnica nella nostra vita con un opaco vetero-laicismo, annacqua la riforma della giustizia sgradita ad una magistratura sempre più incontrollabile, scodinzola ai piedi del giustizialismo di Di Pietro e Flores d’Arcais. L’errore rischia di essere lo stesso nel tempo: inseguire la sinistra persino adesso che non esiste più.
Occorre che Gianfranco Fini ritorni ad una dimensione più politica e costruttiva del proprio ruolo nel progetto del centrodestra che lo ha visto protagonista in questi 15 anni. Lasci ai suoi intellettuali la pretesa gramsciana di governare le idee e torni ad avere idee per governare.
© Il Tempo, 17 Marzo 2010
Immagine: René Magritte, Il modello rosso, 1935

11 marzo 2010

il momento di una rivoluzione giovane


di Giampaolo Rossi
Chissà se il Presidente del Consiglio i consigli li ascolta. Chissà se è disposto ad ascoltarli fuori dalla cerchia dei consiglieri di professione di cui è circondato. Ma lo stato comatoso in cui versa il Pdl oggi, di cui la “Caporetto” delle liste regionali a Roma è solo l’ultimo episodio, impone un intervento drastico di indirizzo, prima che sia troppo tardi. In gioco c’è molto più di una tornata elettorale. C’è quel progetto metapolitico che dovrebbe consentire di attraversare la morte delle culture del ‘900 dando corpo ad un nuovo e moderno soggetto capace di modernizzare il Paese, cominciando dalla sua classe dirigente.
Allora, partiamo da un dato che sembra ormai assodato: il Pdl non esiste. O meglio esiste qualcosa che è un po’ più di un cartello elettorale e molto meno di un partito. E il Pdl non esiste non perché sia già morto, ma perché nessuno ha pensato di farlo nascere. E’ come un’eterna gravidanza con le sue nausee, i dolori, le speranze, il nome già scelto, gli abitini confezionati e l’attesa infinita di un tempo a venire in cui tutti si dimenticano che ogni nascita è uno strappo e una rinuncia a qualcosa di sé.
Il Pdl non è mai nato, perché chi doveva non ha saputo costruirgli un’identità politica e culturale. Le responsabilità del Premier, in tutto questo, ci sono indubbiamente se non altro perché il Pdl nasce dalla sua strenua volontà; ma alle sue responsabilità vanno aggiunta quelle di una classe dirigente stanca, incapace di visioni strategiche, spesso solo concentrata a crearsi aree di potere funzionali ad un dopo-Berlusconi ancora di là da venire. Il problema è che, in questi quindici anni, la classe dirigente di centrodestra, tranne rare eccezioni, ha vissuto di rendita lasciando sulle sole spalle del Premier tutto il peso di una scommessa che doveva rappresentare la nascita di una nuova Italia. E il paradosso è che sono proprio quegli ambienti maggiormente allergici alla “plastica” del ’94 e che hanno spesso guardato con sufficienza l’esperimento politico berlusconiano, ad avere le maggiori colpe; spettava alla destra post-missina, alle componenti cattolico-liberali e a quelle riformiste il compito di dare forma culturale e unitaria al fenomeno dirompente del berlusconismo prima e al Pdl poi. Così non è stato. I leader di queste zone grigie si sono limitati a costituirsi giardini murati, proto-correnti sotto forma di Fondazioni, consumandosi in una guerra di posizione e di attesa senza quasi mai una spinta che andasse verso la creazione di nuove sintesi oltre le proprie provenienze. E oggi il Pdl altro non è che la somma aritmetica delle vecchie rivalità interne a Forza Italia più le vecchie correnti di An in perenne guerra tra loro.
Ma il Pdl non è stato frutto di un elaborato teorema politico-culturale, partorito nei convegni dei soliti maniscalchi delle idee e scriba da new media; né, come il Pd di Veltroni, è nato all’incrocio dei grandi interessi del potere economico e finanziario che da vent’anni cercano una politica debole che garantisca la loro forza. Il Pdl è stata un’intuizione politica, sceneggiata in una fredda piazza milanese nel novembre del 2007, come tentativo geniale ed estremo di Berlusconi di scardinare l’immobilismo di un sistema che aveva esaurito la spinta propulsiva del decennio precedente. Questa è stata la sua forza ma anche la sua evidente debolezza. Da quella intuizione il Pdl non si è mosso, nonostante gli Statuti, i congressi e i tesseramenti online.
In questi ultimi mesi i danni generati dall’assenza di un partito e dalla mancanza di selezione della classe dirigente, sono ricaduti pesantemente anche sull’operato del Governo, segno questo che la “politica del fare” ha bisogno di appoggiarsi alla “politica dell’essere” qualcosa. Il modo in cui localmente il Pdl si è mosso attorno alla questione delle prossime regionali, dimostra che molto c’è da fare per renderlo adeguato alle sfide in atto: non solo il caso delle liste a Roma e a Milano; dalla scarsa lucidità strategica nella definizione di accordi locali, come ad esempio in Puglia, alla inconcepibile composizione delle liste in Toscana, dove il meglio della classe dirigente regionale è stata epurata, a vantaggio di logiche clientelari e di potere che farebbero rabbrividire un Politburo.
Quindi, se il Presidente del Consiglio i consigli li accetta, provo a dargliene uno. Dopo le elezioni metta mano subito al Pdl e lo trasformi da riserva di caccia di vecchie nomenclature, a spazio per una nuova classe politica (e non solo politica). Lo faccia con lo stesso coraggio avuto in altre occasioni, come quando ha formato il più giovane governo della storia repubblicana, affidando ministeri e ruoli importanti a quella generazione di trenta-quarantenni che rappresentano la dimensione giovane e vitale della politica. Rinnovi il partito e con esso rinnovi il paese. Lo faccia nelle aziende pubbliche, nell’amministrazione, nei luoghi di elaborazione culturale e di produzione dell’immaginario simbolico. Sarà questa nuova classe dirigente che saprà dare forma alla sua straordinaria intuizione. A pensarci bene, lo stesso coraggio non basterà. Ne servirà di più.
© Il Tempo, 11 Marzo 2010
Immagine: Albert Anker, Due bambini con la lavagna, 1882