23 maggio 2011

se il Pdl implode...

Indipendentemente da come andranno i risultati dei prossimi ballottaggi, rimane un dato politico su cui bisognerà riflettere dal giorno dopo le battaglie di Milano e Napoli: e questo dato rappresenta la chiave interpretativa sul futuro del centrodestra italiano, molto di più della questione sulla tenuta del governo e della maggioranza. Il dato politico è il costante ed inesorabile liquefarsi del Pdl; un processo di disidratazione che non è certo imputabile all’arrivo del primo sole estivo. La sconfitta elettorale del centrodestra rischia di passare in secondo piano rispetto al peso storico che potrebbe avere l’implodere definitivo del partito dopo le elezioni. I segnali ci sono tutti e da molto tempo.
L’esempio più tragicomico è avvenuto proprio nel Lazio, dove il sindaco di Roma Alemanno, uno degli uomini forti del Pdl, ha appoggiato i candidati della lista della governatrice Polverini (eletta con i voti del Pdl) contro i candidati del Pdl. Risultato: in importanti città dove il centrodestra poteva vincere al primo turno, andranno al ballottaggio due candidati di centrodestra. Alemanno ha spiegato che questo è il nuovo laboratorio politico del Lazio. Ma più che un laboratorio sembra un manicomio.
La realtà è che da tempo il Pdl è fuori controllo, sottoposto a conflitti, defezioni, ricatti, fratture e inadeguatezze che, con ogni probabilità, aumenteranno nelle prossime settimane facendo emergere con forza l’errore strategico di chi ha sottovalutato l’importanza del partito come spazio necessario alla mediazione e alla ricerca del consenso.
I teorici del “partito leggero”, coloro che l’hanno voluto privo di reale organizzazione, fragile nella capacità di radicamento e incoerente in quella decisionale, l’hanno costruito come una struttura cava, vuota, funzionale ad essere comitato elettorale nei periodi di guerra (elezioni) e comitato d’interessi nei periodi di pace
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La realtà è che un partito non può essere leggero perché la sua funzione è troppo importante negli equilibri di una moderna democrazia: serve ad attrarre e selezionare classe dirigente, ad intercettare la frammentazione sociale riconducendola ad interessi coerenti di categorie o gruppi di cittadini, a radicare nel territorio aree di consenso, a orientare l’attività del governo accorciando la distanza tra politica e società civile. Per riuscire in questo, un partito moderno ha bisogno di democrazia interna, strutture, regole chiare, gerarchie non imposte, pluralismo, capacità di presenza territoriale. Esattamente tutto ciò che non ha il Pdl.
In questi quindici anni il tratto identificativo della grande intuizione berlusconiana è stato la nascita del sistema bipolare, e con esso di una democrazia finalmente matura, capace di sintetizzare nella dimensione politica la complessità di un paese non più rappresentato dai vecchi partiti ideologici. Fu all’interno di questo bisogno di bipolarismo che nacquero le visioni liberali di uomini come Martino o Pera (oggi non a caso relegati ai margini del Pdl dai nuovi padroni del vapore berlusconiano), i percorsi identitari della nuova destra italiana o quelli riformisti che a tratti, a sinistra, hanno cercato di percorrere. Il Pdl intuito dal Cavaliere doveva essere lo strumento per trainare l’Italia dentro un bipolarismo completo, che sconfiggesse la logica perversa del pro o contro Berlusconi. Non essere riuscito in questo è stato il più grave errore suo e della sua classe dirigente. L’epopea berlusconiana non finirà per mano giudiziaria o per complotti mediatici. Ma può finire se questo sistema bipolare dovesse esplodere, riportando l’Italia dentro il pantano politico di una frammentazione di piccoli ed egoistici partiti. Questo sarebbe l’esito più grave della fine del Pdl.
© Il Tempo, 23 Maggio 2011

18 maggio 2011

piccoli berluschini (non) crescono

Vecchi e giovani berluschini crescono, implacabili imitatori del leader maximo ma senza averne il carisma, né la capacità di autoironia, né sopratutto l’empatia trascinante che è tuttora la chiave vincente del suo modello comunicativo. Li vedi scatenarsi soprattutto nei periodi di campagna elettorale, quando la qualità del dibattito cala ed il tono della comunicazione politica assume aspetti goliardici o addirittura trash. Nell’enfasi del conflitto e della guerra totale, con le categorie di amico e nemico che perdono la loro relatività e diventano assolute, si consumano allusioni pesanti, attacchi, prese di posizione e dichiarazioni al limite dell’horror. Ma se a Berlusconi si possono perdonare barzellette o battute in discesa (quelle a sfondo sessuale, quelle sulle donne di sinistra o quelle sui magistrati) se non altro perché nascono da una personalità unica, complessa e sicuramente non riducibile al “battutismo militante” su cui sembra schiacciata la politica del nostro tempo, la stessa cosa non si riesce proprio a fare ai miracolati del berlusconismo: quella generazione di politici che pensano che il miglior modo per sembrare degni del ruolo che solo al Cavaliere devono, sia prendere il peggio di lui piuttosto che il meglio. E così se Berlusconi dice che le donne del Pdl sono più belle di quelle del Pd, ecco giù una sfilza di dichiarazioni dei replicanti di turno su quanto sono racchie le elette di sinistra ed avvenenti quelle di destra. Se Berlusconi attacca con violenza i magistrati definendoli “cancro della democrazia”, subito arriva il replicante governativo, per il quale la magistratura diventa addirittura una “metastasi”.
L'imitazione accompagna come un'ombra da sempre le leadership; gli antropologi hanno spiegato che la mimesis è la base di quel comportamento emulativo che genera innovazione e, in alcuni casi, conflitto (la “violenza mimetica” di cui parla René Girard). Non solo in politica, ma anche in economia l’imitazione è la via più rapida per innovare. Quello che è un comportamento biologico e naturale finalizzato all’evoluzione della specie, diventa anche comportamento sociale finalizzato all’evoluzione dell’insieme collettivo. Ma ogni imitazione deve introdurre elementi di novità e originalità. Si imita un modello e lo si supera garantendosi l’appropriazione del ruolo e l’adattamento migliorativo delle funzioni. Anche per la politica dovrebbe funzionare così. Il problema si pone quando, del tutto sottomessi ad una logica mediatica che riduce la profondità della politica all’apparenza e il contenuto all’apparire, i politici di centrodestra si affannano ad inseguire Berlusconi su un terreno che può essere solo il suo: quello della dissacrazione della ritualità politica e della rottura degli schemi comunicativi classici. Qui si pone un tema su cui, nel centrodestra, dovrebbero iniziare a riflettere; perché tra imitare e replicare c’è una differenza di specie: imitare è tipico degli uomini, replicare è tipico dei pappagalli. La questione scivola così dall’antropologia all’etologia (la scienza che studia i comportamenti animali), dal regno dell’agire umano al regno animale. I pappagalli usano la loro capacità di fonazione quando sono in cattività: chiusi in una gabbia, replicano la voce umana per attirare l’attenzione del loro padrone, avendo imparato che vocalizzare aumenta l’interesse nei propri confronti. Alcuni dei politici di centro-destra sembrano essere proprio questo: non imitatori di un modello politico di riferimento cui agganciare elementi innovativi, ma variopinti pappagalli impegnati ad attirare l’attenzione del loro ammaestratore, replicandone la voce.
La questione non si pone a sinistra, perché da quelle parti non esiste alcun centro attrattivo dotato di potenza d’immagine simile a quello di Berlusconi. L’assenza di un modello da imitare spiega perché da quelle parti l’evoluzione si sia arrestata e la sinistra italiana sia abitata da giganteschi brontosauri, intellettuali e politici, in via d’estinzione.
A destra, invece, le possibilità evolutive ci sono, eccome. Basta che i leader del Pdl la smettano di fare i pappagalli e tornino dentro sembianze umane, provando anche a pensare, con coraggio, a quale centrodestra immaginano per il futuro e per il dopo. Perché un berlusconismo, senza Berlusconi, pieno di piccoli berluschini nei modi e nei linguaggi, è un orrore caricaturale, che tutti noi vorremmo vederci risparmiato.
© Il Tempo, 13 Maggio 2011
Immagine: Albert Ludovici, The parrot house London zoo, 1862

05 maggio 2011

L'America del capitano Achab

L’America sorprende. Liberal o repubblicana che sia, bianca o nera, wasp o multicultural, progressista, conservatrice, governata da un cowboy texano o da un afro di Honolulu, rimane l’unico paese al mondo capace ancora di incarnare uno spirito che supera i confini della propria identità per diventare misura, legge, nomos del mondo dentro la storia. Per capire cosa ha mosso l’America in questi ultimi 10 anni, bisogna rileggere Moby Dick, e riconoscerla nel capitano Achab, il cacciatore della balena bianca narrato da Herman Melville. Come il capitano Achab, mutilato da Moby Dick, l’America ferita e mutilata a Ground Zero ha inseguito per 10 anni la sua Balena Bianca. Ha solcato i mari oscuri e sconosciuti delle montagne afgane, delle città pakistane, dei deserti iracheni, per poi trovarla. Ma a differenza di Achab, che nel romanzo di Melville muore trascinato nei gorghi dalla sua stessa preda, qui l’America ha vinto: ha arpionato la sua balena con un colpo alla nuca, forse con due, non si sa. Si sa solo che “giustizia è fatta”, ha detto il Presidente americano, forse anche per Achab.
Moby Dick, che Melville scrisse nel lontano 1851, è il vero romanzo di fondazione dello spirito americano; quello che svela la natura profonda di questa nazione contraddittoria, titanica e universale, costruita non attorno ad una moneta, ad una burocrazia o ad una idea astratta (come l’Europa), ma dentro la realtà di una frontiera dura e spietata che da duecento anni è centro del mondo. Una nazione immersa nella modernità che essa stessa ha generato, ma che non ha timore di concepire la giustizia legata agli archetipi della vendetta e dell’onore. E’ questo l’inconscio collettivo che il paese non ha mai rimosso, la struttura mitica che l’America non ha mai rifiutato, neppure dentro l’orizzonte del tempo della tecnica. Anzi, vendetta, onore e giustizia ricorrono ancora oggi in molte grandi narrazioni con cui, ancora oggi, cinema e letteratura costruiscono l’immaginario della nazione.
Ma l’eliminazione di Osama bin Laden è molto di più di un atto di giustizia rivestito di vendetta. Non può essere limitata solo ad un’importante operazione antiterroristica, ad un atto di guerra, ad una perfetta azione di intelligence. Travalica persino il complesso mondo dei segni e dei significati simbolici. Essa è la prova che il mondo sarà pure multipolare, come si ripete stancamente, ma il potere rimane unilaterale: ed è ancora quello americano. Il potere è il concetto più evasivo e indefinibile della dimensione politica. E’ difficile misurarlo ed è composto da troppe variabili: è potere economico, militare, ma è anche e soprattutto potere morale, forza, capacità determinata, visione della storia. Le nazioni che hanno lasciato segni sono quelle che hanno pensato se stesse in una dimensione universale e hanno costruito il proprio spazio sotto forma di “imperium”, che è principio di autorità e legittimità insieme. E oggi l’America rimane un impero, perché è l’unica nazione ancora in grado di pensarsi globale. L’unica nazione ad avere una dimensione morale così ampia da pretendere di far coincidere, in politica estera, gli interessi nazionali con quelli del “mondo libero”.
Ora, con l’eliminazione di bin Laden, si moltiplicano i giudizi sul presunto nuovo corso del Presidente americano, sempre più in linea con la belligeranza senza sconti del suo predecessore George Bush. Gli scenari si fanno più complessi e indefiniti: i rapporti con il mondo islamico, la possibilità di una recrudescenza terroristica, la crisi economica globale. L’unica cosa certa è che il declino dell’impero americano sembra ancora lontano a venire. Il mondo multipolare arranca; sembra più un’idea che una realtà. L’Europa scompare nella sua inutilità politica, la Cina si chiude nel proprio affarismo autoritario, Russia e India rimangono poco più che potenze regionali e solo l’America si erge come unica potenza capace di imporre “hard power” (forza militare e supremazia tecnologica) e “soft power” (carismatica capacità di attrarre nei suoi valori). Questa consapevolezza prescinde da chi governa il paese.
La nave che comandava Achab si chiamava Pequod. E’ sul Pequod, “una nave tinta dalle intemperie di tutti e quattro gli oceani” che l’America continua a solcare solitaria i mari di questo scorcio di storia, con molti venti contrari e tempeste all’orizzonte. Questa America sorprende e, come recita un cartello alzato da un giovane a New York, “America winning”. L’America sta vincendo, e il mondo lo sa. Il sacrificio del capitano Achab non è ancora vano.
© Il Tempo, 5 Maggio 2011