25 marzo 2011

Interesse nazionale

di Giampaolo Rossi
La politica estera di uno Stato si basa sul principio dell’interesse nazionale. Esso traduce, in epoca moderna, il concetto di “utile” che fin dai tempi antichi Tucidide vedeva contrapposto all’idea astratta del “giusto”. A ben vedere, il complesso sistema delle relazioni internazionali si regge su una costante tensione tra l’affermazione di ciò che è utile per uno Stato e la legittimazione di ciò che è giusto. Quando i due principi (utilità e giustizia) non riescono a coincidere, uno Stato farà prevalere inevitabilmente ciò che per sé è utile e non ciò che è giusto. Di questo aspetto bisogna tenere conto quando si analizzano le situazioni di crisi e le ragioni dei conflitti, evitando di cadere nell’utopia irresponsabile e arcobaleno di pacifismi e umanitarismi vari.
Nell’epoca moderna, con gli stati nazionali divenuti la base degli equilibri geopolitici, l’utile è stato identificato con l’interesse nazionale. Esso continua a valere anche nei contesti in cui uno Stato è integrato dentro un sistema di alleanze e coalizioni. Non esistono obblighi internazionali che possano contrastare con il principio fondamentale della propria sicurezza (cioè dell’interesse), pena la necessità di svincolarsi da quell’obbligo. E’ ciò che ha fatto qualche giorno fa la Germania decidendo di ritirare la propria Marina dalle operazioni Nato nel Mediterraneo contro la Libia, o quello che fece la Spagna di Zapatero in Iraq, nell’ambito della missione Onu.
Per anni, nel nostro paese, il principio di “interesse nazionale” è stato relegato ad aspetto marginale di una politica estera inesistente e adagiata sulle scelte strategiche statunitensi. Il motivo era chiaro: usciti in maniera disastrosa dall’ultimo conflitto mondiale, incastrati nella logica di Yalta che ha fatto per quarant’anni dell’Europa una comparsa delle dinamiche bipolari tra Usa e Urss, condizionati da una dominante ideologia cattocomunista imbevuta di internazionalismo e pacifismo, abbiamo pensato che la nostra politica estera fosse elemento secondario perché non ritenevamo indispensabile una sovranità e una identità nazionale forte. Tanto avevamo chi ci difendeva e ci forniva energia, e questo bastava. Eppure dopo l’intervento militare in Kossovo, l’Italia ha recuperato un ruolo internazionale e la capacità, seppure ancora embrionale, di ripensare la propria posizione nel mondo, anche nell’ottica della tutela dei propri interessi vitali e strategici. La contrapposizione con un forte fronte interno pacifista ha rallentato il recupero del nostro senso storico, ma oggi è indubbio che l’Italia è un soggetto credibile grazie all’impegno militare nelle missioni di pace e nella lotta al terrorismo e grazie alla strategia di diplomazia economica imposta in questi anni da Berlusconi. La recente rivelazione dell’ex Segretario di Stato americano Donald Rumsfield, che fu Berlusconi a convincere Gheddafi ad abbandonare i progetti di sviluppo nucleare iniziati dalla Libia, conferma il ruolo di centralità e di mediazione che il nostro Paese ha avuto negli equilibri internazionali, e soprattutto il peso e l’influenza su quest’area geografica.
La crisi libica ha però aperto una falla in questo percorso. Subita e non prevista nei suoi immediati sviluppi, ha trovato distratti un po’ tutti. Dopo una fase iniziale stentata e improvvisata in cui gli eventi sono stati colpevolmente ignorati, il governo italiano ha messo a segno un successo diplomatico importante: l’imposizione della Nato nelle operazioni militari. Ma ora, sembra confuso attorno alla questione centrale che si svilupperà nei prossimi giorni, e già preannunciata da Hillary Clinton e da Sarkozy; e cioè il fatto che l’intervento militare non si limiterà solo alla garanzia della no-fly zone imposta dall’Onu, ma proverà a determinare la caduta di Gheddafi. In quest’ottica, è nei nostri interessi nazionali che ciò accada? Se sì, l’Italia deve accelerare il processo di individuazione e accreditamento dei nuovi interlocutori; sennò, deve spingere per mantenere l’intervento nei limiti della risoluzione Onu, e, in caso contrario, operare una scelta di rottura rispetto all’arroganza francese e ai tentennamenti americani, ricordando che non c’è obbligo di coalizione che possa imporre all’Italia di andare contro i propri interessi. La definizione dell’obiettivo politico è il risultato di ciò che si è individuato come “interesse nazionale”. In altre parole, ciò che è più utile per noi.
© Il Tempo, 25 Marzo 2011
Immagine: Lawrence Alma-Tadema, Un Imperatore romano nel 41 d.C., 1871

17 marzo 2011

Le rivoluzioni dei troppi figli

Le hanno chiamate “rivoluzioni senza padri”, quelle che stanno sconvolgendo Tunisia, Egitto e Libia, mutando il volto del nord Africa e lo scenario internazionale. In realtà, più che senza padri, sono “rivoluzioni dei troppi figli”, e non solo per un richiamo evocativo all’imprevedibilità degli eventi, ma per la dinamica demografica che ha avviato i processi e sottoposto le analisi geopolitiche ad uno stress di valutazioni spesso sbagliate. Ciò che sta succedendo in quella parte del mondo, è spiegato da una teoria ormai alla base delle analisi dei servizi d’Intelligence di molti paesi e delle valutazioni macroeconomiche delle organizzazioni internazionali. Si chiama, "youth bulge" letteralmente “rigonfiamento della fascia giovanile” della piramide dell’età. Elaborata alla metà degli anni ’90 dal sociologo tedesco Gunnar Heinsohn, la teoria ha conquistato grande importanza da quando studiosi come Fuller l’hanno resa funzionale alla politica estera del governo americano. In sintesi, la teoria afferma che c’è sempre una stretta correlazione tra la rapida crescita di popolazione giovanile e lo scoppio di rivolte, guerre e terrorismo. Secondo Heinsohn, lo “youth bulge” si sviluppa quando, in una nazione, la fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni supera il 20 per cento della popolazione. A quel punto, l'eccedenza di figli maschi genera frustrazione sociale, dato che solo la metà di loro potrà aspirare a ruoli all'interno della collettività; gli altri saranno costretti a emigrare o a conquistarsi una posizione con la violenza. Il conflitto non si origina quindi per motivi economici o politici, perché “chi cerca da mangiare mendica, chi aspira a una posizione sociale spara”; ed è su questa frustrazione sociale di masse giovanili incontrollabili che si innestano ideologie, integralismi religiosi e nazionalismi a legittimare comportamenti violenti e aggressivi che trovano poi sbocco nel terrorismo, nelle rivolte interne o nelle guerre. In questo contesto, tanto più le istituzioni politiche sono deboli o corrotte, tanto più sono vulnerabili all'esplodere incontrollato dello “youth bulge”. In realtà esso è causa necessaria ma non sufficiente per spiegare l’esplodere di conflitti e rivolte in un Paese; a questo vanno aggiunte valutazioni economiche, politiche e culturali complesse, come il livello di istruzione medio, la trasformazione del mercato del lavoro, i processi di urbanizzazione e di modifica dei settori produttivi, la funzione dei media, l’evoluzione dei modelli familiari, il ruolo delle forme religiose. Ma è indubbio che lo “youth bulge” è il punto di partenza dal quale individuare una potenziale area di crisi.
Il caso Tunisia è emblematico: in questo paese, nel decennio 1986-1995, si è avuto un boom demografico che ha portato oggi la fascia di età giovanile (15-29 anni) a superare il 33% della popolazione politicamente attiva. Fu questo a spingere la Cia, fin dai tempi dell’amministrazione Bush, a monitorare questo paese come potenzialmente critico. Eppure, come ha sottolineato Jack Goldstone, Direttore del Global Policy Center e massimo esperto di sicurezza e politica internazionale, gli analisti hanno continuato a ritenere che la forte crescita economica della Tunisia (+ 5% annuo) potesse essere un argine al rischio di esplosione di rivolte. Non è andata così, perché la natura corrotta e repressiva del regime di Ben Alì ha portato a consumare quasi la metà della ricchezza del paese all’interno di una strettissima oligarchia di potere che ha lasciato il resto della popolazione fuori dallo sviluppo economico, aprendo la strada ad una frustrazione sociale che i giovani hanno trasformato in rivolta.
Sul Time, Faared Zakaria ha ricordato come dal 1970 al 2007, l’80% dei conflitti nel mondo sono scoppiati in paesi in cui il 60% della popolazione aveva meno di 30 anni. Recentemente il Pai (Population Action International) ha classificato come “molto giovani” 67 paesi, nei quali due terzi della popolazione ha meno di 30 anni. Di questi, 60 stanno conoscendo rivolte sociali, violenza e terrorismo (tra questi l’Afghanistan, il Pakistan, la Nigeria, l’Iran, la striscia di Gaza). Quasi tutti sono paesi islamici.
Lo “youth bulge” ha ovviamente un andamento ciclico e diversi fattori possono determinare un calo demografico che in genere accompagna la stabilizzazione sociale, com’è accaduto in Europa o nel Sud America degli anni ‘80 (sviluppo della democrazia, crescita economica, processi di secolarizzazione). E così avverrà anche per il mondo islamico e l’Africa subsahariana, che nell’ultimo secolo hanno decuplicato la loro popolazione. Prevede Heinshon che intorno al 2025 lo “youth bulge” di queste aree si sgonfierà. Fino a quel momento però, per i prossimi 15 anni, i 300 milioni di giovani musulmani maschi che oggi hanno meno di 20 anni, saranno un forza dirompente, “un potenziale di violenza per i loro paesi, ma anche per il resto del mondo”. L’Europa è avvertita.
© Il Tempo, 17 Marzo 2011

09 marzo 2011

Morire per la Chiesa

Shahbaz Bhatti era il Ministro per le Minoranze Religiose del Pakistan e aveva 42 anni. Il 2 marzo è stato ucciso a Islamabad con 35 colpi di arma da fuoco, mentre si recava al suo ministero in auto. Una grandinata di morte sopra un uomo disarmato e senza scorta, accompagnato solo dal suo autista. Bhatti era impegnato in difesa dei cristiani in un paese in cui la forza e la violenza dell’integralismo islamico assumono sempre più i connotati di una vera e propria caccia all’uomo. Shahbaz Bhatti era cattolico.
Fin qui la cronaca di un episodio come tanti che i media ci inviano da quelle regioni con una continuità che ormai ha il sapore dell’indifferenza; come una sorta rumore di fondo di una realtà che facciamo fatica a comprendere perché incomprensibile secondo i nostri criteri, e che scorre con la velocità del nulla nel fiume di informazioni, immagini e notizie che attraversano il nostro quotidiano. Eppure la morte di Bhatti ci colpisce non solo per le solite considerazioni morali e politiche con cui spesso sono giudicati questi avvenimenti in Occidente. E nemmeno perché Benedetto XVI, nell’Angelus di domenica, ha pregato “affinché il suo commovente sacrificio” svegli le coscienze degli uomini, o perché il Ministro Frattini ha deciso onorarlo con una gigantografia che campeggia sulla facciata della Farnesina. No. C’è qualcosa di rimosso nel cuore dell’Occidente, che la morte di quest’uomo riporta alla luce; e questo qualcosa non coinvolge solo i cristiani sempre più inerti di fronte alla violenza che li sta investendo.
Sul suo sito,
la BBC ha pubblicato un video della durata di un minuto, registrato quattro mesi fa. Bhatti, seduto davanti ad una camera fissa, consegna al tempo e a questa implacabile memoria digitale la consapevolezza della sua morte; poche parole, quasi come una voce clandestina. Un video asciutto e scarno, nel quale dipinge il quadro di un paese dilaniato dall’odio. Dice che “le forze della violenza, i talebani e i terroristi di Al Qaeda, vogliono imporrre la loro filosofia radicale in Pakistan”. Spiega che sta conducendo “una battaglia contro le leggi della sharia per l’abolizione della blasfemia, parlando per i cristiani oppressi, perseguitati e uccisi”. Dice cose che in fondo sappiamo di sapere anche noi, chiusi dentro giustificanti sensi di colpa. Eppoi, come un pugno allo stomaco, afferma: “io credo in Gesù Cristo, che ha dato la sua vita per tutti noi. Conosco il significato della croce e sto seguendo la croce. Per essa sono pronto a morire”. Non c’è frase più fuori dal tempo di questa, e insieme più dentro la nostra memoria. Una sveglia alle coscienze sonnecchianti di un Occidente che non crede più in nulla. Le parole di Bhatti solcano due millenni di storia d’Europa e di uomini e donne che le hanno già esclamate con incoscienza, urlate con coraggio o piante disperatamente per la paura di fronte ai loro carnefici.
Nella navata destra della Cattedrale di Otranto, gioiello romanico e simbolico del cristianesimo, sono conservati i teschi degli 800 martiri beatificati dalla Chiesa; furono decapitati dopo la conquista della città da parte dei turchi il 14 agosto 1480. Furono trascinati sul colle di Minerva e, ad uno alla volta, fu chiesto di abiurare la fede cristiana e convertirsi all’Islam; uno alla volta rifiutarono; uno alla volta furono decapitati. Gli uni davanti agli altri. E forse uno alla volta, con orgoglio, terrore, disperazione, pronunciarono la stessa frase di Bhatti: “io credo in Gesù Cristo”. La Chiesa di Roma continua a reggersi sulla solennità dei propri martiri. In questo sembra sola ma non lo è. La morte di Dio che l’Occidente ha decretato segna l’orizzonte di un tempo piegato su se stesso. Eppure Dio non è morto. Solo l’Europa lo ha eclissato dal suo orizzonte. Nel resto del mondo Dio c’è e nel suo nome si uccide e si muore, si prega e si maledice: nel suo nome si svela il disincanto di Bhatti e la violenza dei suoi assassini. Il filosofo cattolico Jean Guitton ha detto che “la parola di Dio non è mai vincolata. Se ci si allontana da essa in un punto, va a seminarsi altrove”. Lontano dall’Europa il cristianesimo conserva intatto il suo messaggio universale; perché se uccidere in nome di un Dio che reclama vendetta è un’offesa verso l’uomo, accettare di morire nel nome di un Dio che è amore, ha un significato anche per chi non crede più in nulla.
© Il Tempo, 9 Marzo 2011
Immagine: Camilian Demetrescu, Morte bacio di Dio, 1996

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03 marzo 2011

Errori della Cia e rivolte arabe

All’indomani del colpo di stato che, nel 1964, eliminò Krusciov dalla guida dell’Unione Sovietica, un alto dirigente della Cia, per spiegare il perché l’Agenzia di intelligence americana non avesse previsto nulla di tutto ciò, disse che in realtà era stato consultato il maggiore “sovietologo” del mondo, tale Nikita Krusciov, e che anche lui era rimasto sorpreso dagli eventi. L’aneddoto, raccontato sul Weekly Standard da Gary J. Schmitt, esperto americano di questioni strategiche, spiega molto chiaramente i limiti operativi e funzionali dei servizi di intelligence e la loro incapacità nel prevedere eventi e accelerazioni come quelle a cui stiamo assistendo in questi giorni.
Infatti, puntuale negli Stati Uniti, si è riaccesa la polemica nei confronti della Cia, accusata di non aver neanche scorto il sorgere delle rivolte arabe in Tunisia, Egitto e Libia. Il disappunto dello stesso Presidente Obama è stato confermato da James Clipper, direttore della National Intelligence Agency, che ha rivelato come la Casa Bianca si sia trovata spiazzata dalla velocità di sviluppo degli avvenimenti nordafricani. In realtà, se dovessimo giudicare la questione solo in termini politici, dovremmo concludere che, negli ultimi trent’anni, la Cia ha raccolto una lunga serie di errori di valutazione o giudizi superficiali su avvenimenti che poi hanno avuto influssi epocali nella storia: dalla rivoluzione iraniana del 1979, fino ai recenti esperimenti nucleari indiani, passando per l’11 settembre e per il famoso report sulle armi chimiche di Saddam che giustificò l’intervento militare americano in Iraq.
John Diamond, studioso di strategia ed autore di “The Cia and the culture of failure”, afferma che le cosiddette “sorprese strategiche”, quelle che generano il più pesante effetto mediatico, non mostrano in realtà un record così fallimentare per la Cia; episodi come Pearl Harbour o l’invasione sovietica in Afghanistan o l’11 settembre possono essere immaginati all’interno di un contesto, ma non sono prevedibili nei tempi. Al contrario, i veri flop della Cia sono state le cosiddette “analisi strategiche a lungo raggio”, come il crollo dell’impero sovietico o il già citato rapporto sulle armi chimiche di Saddam, che hanno generato valutazioni completamente errate, tanto più gravi in quanto riguardanti paesi che erano fortemente controllati dai servizi segreti.
La sensazione è che le attività di intelligence riescano sempre meno a cogliere i processi di trasformazione che attraversano le società e la velocità con cui questi avvengono. I media, internet e le reti interattive globali di comunicazione, se da una parte rendono il mondo uno spazio più ristretto, dall’altro diversificano e frammentano i tessuti sociali rendendo incomprensibili e a volte invisibili trasformazioni che si colgono solo quando esplodono in maniera dirompente; e controllare tutto questo è, per ora, impossibile. A chi ha rimproverato alla Cia di non aver monitorato a sufficienza il mondo della rete, dei blog e dei social network, per accorgersi di cosa stava accadendo in nord Africa, il Direttore Leon Panetta ha risposto che controllare una massa di dati composta da oltre 660 milioni di account su Facebook, 190 milioni su Twitter e 35 mila ore di video su You Tube, nelle più svariate lingue del mondo, è cosa ardua anche per il più grande servizio di intelligence del mondo.
Ma ciò non toglie che il problema di approccio, da parte della Cia, rimanga. Nel 1979 gli Stati Uniti non furono colti del tutto di sorpresa dalla rivoluzione iraniana; la Casa Bianca sbagliò a ritenere ancora possibile l’avvio delle riforme democratiche promesse dallo scià e a sopravvalutare la sua macchina repressiva, ma, in fondo, se l’aspettava. In realtà ciò di cui l’America non s’accorse, per una sorta di deformazione ideologica, fu la potenza dell’elemento religioso che consentì all’ayatollah Khomeini di cambiare la storia e che gli osservatori americani pensavano fosse un anacronismo. Le rivolte arabe di questi giorni hanno elementi d’imprevedibilità maggiori, ma uguale è stata la sostanziale incapacità dei servizi di intelligence di analizzare gli aspetti culturali e sociali che ne stanno alla base.
La realtà è che, come dice Schmitt, non si possono prevedere gli eventi. Al massimo si possono orientare una volta scoppiati. E forse è così: chi avrebbe potuto immaginare che il sacrificio di un giovane fruttivendolo di una città tunisina avrebbe messo in moto una rivolta che sta cambiando il volto del Medio Oriente?
© Il Tempo 3 Marzo 2011