28 febbraio 2011

L'unico, vero Partito di plastica

Su una cosa Gianfranco Fini c’aveva visto giusto: quando a Bastia Umbra, con grande realismo, disse che Fli non sarebbe stata “una zattera pronta a raccogliere i naufraghi del Pdl”. Infatti. Futuro e Libertà sta colando a picco senza neanche il tempo di mettere in mare le scialuppe di salvataggio; e gli unici naufraghi sono proprio quelli di Fli. Gli ultimi in ordine di zattera sono quello che a Bastia Umbra piangeva di più (Luca Barbareschi) e quello che chiese a Fini di essere “come Mosè” e portare Fli “fuori dalle acque” (Luca Bellotti). Ora, se Fini sta mandando tutto a fondo, la colpa sarà sicuramente dei “potenti mezzi economici e finanziari” del Presidente del Consiglio o dello stalking subito dal povero Bocchino e dalla di lui signora. Ma forse il fatto che, giorno dopo giorno, Fli stia riducendosi da partito politico a circolo di bridge, merita qualche osservazione più approfondita. Un aspetto su cui riflettere è la fallimentare strategia di relazione con i media che Fini e i suoi hanno messo in piedi.
La politica è, innanzitutto, lo spazio dell’apparire (e solo di conseguenza della relazione e quindi del conflitto). Il sociologo Manuel Castells, uno dei più influenti pensatori contemporanei, ha affermato che “i media non sono semplicemente il Quarto Potere. Sono lo spazio dove si costruisce il potere”. Questo significa che, se da una parte la neutralità dei media nella competizione politica è una favola utile per la retorica sulla “libera informazione”, dall’altro qualsiasi soggetto politico deve saper costruire (stante la sua natura e il suo progetto) un rapporto con il mainstream mediatico che sia funzionale ai propri interessi e che non si limiti solo a subirne gli effetti.
Nell’ultimo anno, abbiamo assistito ad una sovraesposizione mediatica della galassia finiana (Fare Futuro prima, Generazione Italia e Futuro e Libertà poi) eccessiva rispetto al peso specifico che questa aveva sia in termini politici, che d’incisività nel dibattito delle idee. Sovraesposizione alimentata dal circuito dei media antiberlusconiani. Se il Corriere della Sera e Repubblica riportavano in maniera sistematica idee e opinioni di un giornale come il Secolo d’Italia, ormai ridotto a foglio semiclandestino per copie vendute e abbonamenti, o Santoro decideva di avere come ospiti fissi Bocchino e Granata, non era certo per la profondità dei loro contenuti, quanto per la funzione strumentale che essi svolgevano.
Lo stesso antiberlusconismo dei finiani, in origine interno alla dimensione della politica e della mediazione, è divenuto ossessivo e irrazionale, molto prima della cacciata di Fini dal Pdl. Come spesso succede all’interno di quel consumo di identità che i media producono, la classe dirigente di Futuro e Libertà ha optato per una dimensione superficiale, appaltando la propria linea politica ai media ostili al centrodestra in cambio di una visibilità che accorciasse i tempi di sviluppo del progetto. Ma politica e media hanno tempi diversi; e questo, gli uomini di Fini non l’hanno capito. Futuro e Libertà è divenuto quindi un movimento politico costruito interamente dai media. E infatti, nel momento in cui la spallata parlamentare a Berlusconi è fallita, i finiani sono stati sconfitti e la loro funzione si è esaurita, il grande circo mediatico ha spento i riflettori su di loro facendo calare un buio che ha relegato all’angolo il movimento nascente. Quello di Fini, dei suoi strateghi da Risiko è un esempio da manuale di come sbagliare l’intreccio tra politica e media.
La storia probabilmente finisce qui. Il risultato è che oggi Futuro e Libertà rischia di battere un record poco invidiabile: quello di essere il primo partito politico della storia repubblicana a scomparire senza aver partecipato neanche ad un’elezione: l’unico, vero ed originale “partito di plastica”.
© Il Tempo 28 Febbraio 2011, pubblicato con il titolo "Il record dei naufraghi di Fini"
Immagine: Craking Art Group, May day May day, 2009

15 febbraio 2011

Il "partire da sé" dimenticato dalle donne

di Giampaolo Rossi
Il Tempo non è Repubblica; ed io non sono Barbara Spinelli. Non vivo a Parigi, non frequento la gauche inorridita da questa Italia berlusconizzata e non appartengo a quel giornalismo raffinato e colto che vomita da 15 anni odio nascondendosi dietro il disagio morale di vedere il proprio Paese ridotto così da questa destra indegna. Non mi chiamo nemmeno Zagrebelsky, come il Presidente onorario di Libertà e Giustizia, il grande giurista che arringa l’elite contro le “notti di Arcore in versione postribolare”. Mi chiamo banalmente Rossi, il più comune dei cognomi italiani, quello che meglio può rappresentare il tipico lobotomizzato dal Cavaliere e dalle sue televisioni. E, a guardarmi bene, non ho nemmeno le occhiaie di Michele Serra, che fanno tanto “pensatore sofferente” e che consentono ad un rachitismo intellettuale di affermare che c’è “un potere che nomina le sue favorite nel Palazzo, usando le cariche pubbliche come moneta per ripagare prestazioni private” e che questa “giustapposizione tra stanze del piacere e stanze del potere” è un problema politico, mica morale; ovviamente senza fare alcun nome, com’è nello stile di questo intellettualismo inquisitorio.
Io che non sono la Spinelli, Zagrebelsky o Serra, e per di più sono di destra, ho avuto la fortuna di incontrare la cultura del femminismo e quel “pensiero della differenza” che ha orientato per circa 30 anni il senso del cambiamento della donna nella società occidentale. E questo pensiero, al di là degli stereotipi, è riuscito a porre la questione del femminile all’interno di un essenziale: il “partire da sé”. Questa è la vera conquista delle donne, pur nell’inevitabile compromesso con la complessità del moderno. Le donne lo hanno fatto offrendo a noi uomini, incastrati nella storia, imprigionati nella morale, dominati dall’ossessione bellicosa del “ruolo sociale”, un punto di vista che avrebbe potuto aiutarci anche a dare senso all’unico linguaggio maschile rimasto in vita, quello del potere. Non è un caso che, in questi giorni di trionfanti mobilitazioni, sia stato proprio il femminismo storico (da Luisa Muraro a Ida Dominjanni), a manifestare un forte mal di pancia sull’uso strumentale della donna da parte di donne, per combattere un uomo. Perché quel “io sono indignata” sbandierato in piazza è stato solo il complice dei desiderata delle Spinelli, degli Zagrebelsky e dei Serra piuttosto che la narrazione comune di un desiderio di recupero del proprio corpo dentro il corpo sociale. Perché il “partire da sé” può essere negato in tanti modi. E forse la sinistra politica lo ha negato in questi ultimi anni più della destra.
Facciamo un esempio: il Partito Democratico, in questa legislatura si è caratterizzato come il partito delle vedove e delle orfane (ovviamente di padre
). La signora Calipari, la signora D’Antona, la signora Coscioni, la signora Fortugno, la signora Rossa. Per non parlare di quelle delle precedenti legislature come Haidi Giuliani, fatta entrare in Senato solo in qualità di madre di Carlo Giuliani (in quel caso nelle file di Rifondazione). La giovane Marianna Madia, candidata capolista nel Lazio da Veltroni, in un’intervista al Corriere della Sera dichiarò che l’allora leader del Pd l’aveva conosciuta al funerale del papà, amico di Veltroni e consigliere comunale a Roma; e che era rimasto colpito dal discorso che lei aveva pronunciato e di cui lei non si ricordava neanche. E’ politica selezionare la propria classe dirigente femminile ai funerali? Forse sì, esattamente come lo è selezionarla al Billionaire. Ma non è questo il punto.
Per le donne, il discrimine dovrebbe essere un altro: tra quelle che il proprio ruolo lo cercano e lo trovano da sole “partendo da sé”, e quelle che invece lo trovano dentro il cono d’ombra di un uomo (vivo o morto che sia, padre, marito, amante, figlio). Tra quelle che si usano misurando se stesse e quelle che decidono di usare ciò che un uomo può mettere a loro disposizione (che sia il suo sesso, il suo denaro, il suo nome o il suo potere, poco importa). Tra quelle che “partono da sé” e quelle che “partono da lui”, e a lui rimangono. Il resto è intellettualismo fumato, piccolo moralismo da fine pensiero oppure, peggio ancora, solo un impreciso calcolo politico, che saranno ovviamente le donne a pagare.
© Il Tempo, 15 Febbraio 2011

09 febbraio 2011

Cameron, il multiculturalismo e i mercatini radical-chic

di Giampaolo Rossi
La signora Madeleine Bunting
si è arrabbiata molto con il premier inglese David Cameron il quale si è permesso di dire, qualche giorno fa, che in Inghilterra il multiculturalismo è miseramente fallito. Stizzita, la signora non gliele ha mandate a dire e lo ha attaccato dalle colonne di The Guardian , il giornale della sinistra un po’ radicale e molto chic. Eh sì, perché la signora Bunting è un’intellettuale famosa, firma d’eccellenza di quella sorta di “Repubblica in salsa britannica” che dell’Inghilterra multiculturale si è sempre vantata con orgoglio progressista. Con tono lirico la signora ha raccontato la sua recente esperienza di multiculturalismo che, ovviamente, smentirebbe Cameron: e cioè il suo shopping del sabato mattina in Hackney's Ridley Road nell’East London, dove “dozzine di nazionalità diverse si aggirano alla ricerca delle migliori verdure, vestiti, coperte e utensili da cucina. E l’aria è piena della fragranza di pane turco e pesce salato africano e le bancarelle sono colme di yams e chili”. E se, nonostante la povertà, tra i venditori di strada risuonano epiteti in dialetto londinese, “tutto questo dimostra straordinariamente come la Gran Bretagna ha risolto la sua iper-diversità”.
Ci siamo dilungati sull’articolo della signora Bunting per due motivi: primo per rincuorare noi italiani del fatto che le intellettuali di sinistra inglesi riescono ad essere anche peggio delle nostre. Secondo, per dimostrare l’astrazione con la quale un certo mondo intellettuale progressista continua ad affrontare i temi reali dell’Occidente, quelli che rappresentano le sfide per la sua stessa sopravvivenza: e il multiculturalismo è uno di questi.
L’accusa fatta da David Cameron fa riflettere sui rischi di una tolleranza che si riduce a mera accettazione di forme identitarie spesso ostili ai modelli e alle leggi dei paesi in cui vivono. Con il coraggio e la sfrontatezza che gli consente la giovane età, il leader conservatore britannico ha fatto un’analisi spietata del processo di radicalizzazione di una parte dell’Islam che vive in Gran Bretagna e del rischio che questo comporta per la tenuta della società democratica. Ha denunciato l’errore di un multiculturalismo che ha permesso si creassero “comunità isolate che si comportano in modi contrari ai nostri valori” ed ha affermato che bisogna smetterla di pensare ad un modello di tolleranza passiva “neutrale rispetto ai diversi valori” che consente l’isolamento e la creazione di corpi estranei alla società. Cameron ha coniato una nuova definizione, “liberalismo muscolare”, di fronte alla quale la signora Bunting è inorridita, scrivendo subito che “questa è la politica del body-building: per lo più estetica ma con una possibilità implicita di opprimere”.
In realtà, la riflessione sulla fine del multiculturalismo iniziò nel 2006 proprio con Tony Blair, all’indomani del drammatico attentato alla metropolitana di Londra in cui persero la vita oltre 50 persone. Per l’Inghilterra, la scoperta che gli attentatori suicidi erano giovani inglesi di religione islamica, di seconda e terza generazione, fu un risveglio brusco dalla favola del paese multicolore e pacifico che si faceva vanto di avere la più ampia legislazione anti-discriminazione del mondo. Fu in quei giorni che Trevor Philips, un insospettabile laburista d’origini afrocaraibiche, stretto collaboratore del premier proprio sui temi dell’integrazione, dichiarò al Times che la parola multiculturalismo “significa cose sbagliate”. E poco tempo dopo fu lo stesso Blair, in uno storico discorso, a dire che in una società democratica ci sono “confini di valori condivisi dentro i quali tutti devono essere obbligati a vivere”.
Se gli intellettuali progressisti, oltre a fare shopping nei mercatini multietnici, provassero a navigare su YouTube, scoprirebbero realtà diverse dai paradisi multiculturali che si dipingono. "You Will Pay With Your Blood” è un breve video amatoriale che riprende le manifestazioni integraliste a Londra del 2006 davanti all’ambasciata danese in occasione delle proteste che incendiarono tutta Europa per le famose vignette anti-islamiche. Si vedono giovani urlare slogan in perfetto inglese, inneggiare alla Jihad e alle bombe contro chi offende il Profeta e innalzare cartelli con scritte tipo: “Europa pagherai, il tuo 11 Settembre è vicino”. Non a Kabul, ma nel centro di Londra. Attorno, un cordone di poliziotti garantisce il loro diritto a manifestare. Queste immagini racchiudono l’idea del fallimento del multiculturalismo molto più di qualsiasi concetto. L’immagine di un’Europa stretta nella contraddizione di dover garantire la libertà d’espressione a coloro che la vorrebbero distruggere è il paradosso del multiculturalismo non solo britannico. Il “liberalismo muscolare” che vuole Cameron non impedirà alla signora Bunting di continuare a fare shopping nel suo mercatino, ma forse riuscirà ad evitare che integralismo e fanatismo prendano piede nelle nostra società
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© Il Tempo 9 Febbraio 2011, pubblicato con il titolo "Basta ipocrisie sull'immigrazione"