29 novembre 2010

il populismo del Cavaliere e la politica sui tetti

di Giampaolo Rossi
L’immagine del segretario del Partito Democratico che va per tetti mentre la sinistra italiana è a terra, è un’icona amara, comica e surreale, di ciò che 20 anni di intellettualismo giustizialista e arroganza radical-chic hanno prodotto sulla genìa della classe dirigente politica del vecchio Pci. Schiacciata dal rachitismo intellettuale di Ezio Mauro e dalle paranoie giustizialiste di Travaglio, la sinistra italiana rimane incapace di cogliere l’essenza del berlusconismo e la sua natura, anche solo per provare a rigenerare se stessa. Recentemente, Goffredo Bettini, una delle poche residuali intelligenze politiche che abitano ancora da quella parte, ha riflettuto sulla fase attuale. Il punto di partenza della sua analisi è semplice: il berlusconismo è di fatto un personalismo esasperato che ha concentrato nella persona del premier sia il partito che l’attività del governo. In questa identificazione anche fisica, tra “Stato e corpo del re”, c’è la negazione della complessità moderna della politica e la prossima fine del berlusconismo stesso. Bettini è uno dei fautori, da sinistra, della Santa Alleanza elettorale tra Pd, centristi, finiani e rimasugli di opposizione, con lo scopo di aprire una fase costituente che riporti a un bipolarismo che lui vede ormai perduto. Come si possa arrivare al compimento del bipolarismo italiano attraverso la sua negazione (la Santa Alleanza costituente), Bettini non lo spiega, ma tradisce un clamoroso errore di valutazione quando afferma che, tra i leader che da sinistra oggi si oppongono a Berlusconi, solo Nichi Vendola “ha riscoperto un linguaggio non subalterno alla destra populista”. L’analisi di Bettini cade proprio in questa contraddizione: se il berlusconismo è una forma politica pre-moderna, allora non può essere populista. Di contro, se la destra è populista, allora non può essere pre-moderna. Perché il populismo è oggi un tratto moderno della democrazia, ponendosi come sintesi tra il ruolo di leadership carismatiche e il richiamo all’essenza popolare di movimenti e progetti politici; necessario approccio psicologico alla crisi delle democrazie parlamentari e delle funzioni di delega e rappresentanza su cui esse sono state costruite.
Il populismo di Berlusconi è stato il punto di partenza di quella rivoluzione dolce che, contro il golpe giustizialista del ’92, ha cercato di riconsegnare nelle mani della sovranità popolare una democrazia scippata; per questo è tuttora temuto dai tecnici della politica e dai costruttori senz’anima di immaginari democratici. Perché attraverso di esso, Berlusconi è riuscito a produrre qualcosa di più di una personalizzazione politica; ha riconsegnato il valore della democrazia nelle mani del suo legittimo proprietario: il popolo. Attraverso un bipolarismo sicuramente incompleto (perché ancora costruito sulla contrapposizione a lui, e questo non per sua responsabilità) egli ha ricollegato la politica alla gente attraverso la certezza di essere governati da chi si è scelto. Una novità, per la democrazia italiana. Non l’identificazione del corpo del re con lo Stato, ma l’identificazione del capo con il suo popolo, riuscendo a spezzare i filtri rappresentativi della politica astratta. Con il suo populismo Berlusconi ha saputo parlare agli operai senza bisogno dei sindacati, agli imprenditori senza bisogno della Confindustria, ai professionisti senza bisogno delle associazioni di categoria e alla gente senza passare per il filtro dei media e dei loro manipolatori; e ha costruito una dimensione immaginifica della politica senza bisogno di intellettuali e cantastorie.
E’ proprio questo che non hanno perdonato a Berlusconi: l’aver scardinato quei corpi intermedi cristallizzati che avevano costituito il vero schermo divisorio tra politica e società.
Quelli che prevedono la fine del berlusconismo, in realtà auspicano il ritorno della solita politica da corridoio, tanto cara a Fini, a Bersani, a Di Pietro e a giovanotti come Oscar Luigi Scalfaro. Il motivo è semplice: finché c’è Berlusconi loro, la politica, la possono fare solo sui tetti.
© Il Tempo, 27 Novembre 2010, pubblicato con il titolo "il populismo dei sinistri"

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15 novembre 2010

Fli e sinistra gemelli diversi

di Giampaolo Rossi
Cos’è che lega gli intellettualoni della sinistra storica italiana agli intellettualini fini di Fare Futuro? Cos’è che lega il prof Asor Rosa, uno dei numi tutelari della cultura militante di sinistra, a Filippo Rossi, uno dei polemisti ad alzo zero del Presidente della Camera? Certo non il semplice e scontato antiberlusconismo generato dalla convinzione che la politica sia un’eterna lotta del bene contro il male e della cultura contro l’ignoranza (dove il male e l’ignoranza sono ovviamente rappresentati dal Cavaliere); né la certezza deterministica d’essere comunque dalla parte del giusto. No, è qualcosa di più sottile e inquietante.
La rottura di Fini e la crisi seguita hanno fatto scorgere all’orizzonte chi può far cadere nella polvere la statua del crudele dittatore di Arcore; da qui un richiamo continuo, da parte degli osservatori, a date e paragoni storici relativi al ventennio fascista da far rabbrividire un raduno di nostalgici marciatori. Che Repubblica veda, nel nuovo corso finiano, il 25 Aprile che appenderà a testa in giù Berlusconi, che Gad Lerner paragoni il Presidente della Camera a Dino Grandi, che si citi “l’8 settembre del centrodestra” o che Concita De Gregorio speri in un nuovo CLN che da Fini a Di Pietro, passando per Vendola, rigeneri l’Italia dalla dittatura subìta, tutto questo rende la storia di questo paese e il suo presente una cosa molto più ridicola di quanto si possa credere. Anche perché immaginare Italo Bocchino al posto di Ferruccio Parri, o Mirko Tremaglia e Roberto Menia nei panni dei nuovi partigiani sfilanti tra ali di folle in giubilo, ha qualcosa di amaramente comico.
Il problema è che questi riferimenti racchiudono molto di ciò che rappresentano oggi sia la sinistra italiana che la sua dependance finiana. Il tono, l’analisi e l’entusiasmo con cui l’elite della sinistra-che-conta interpreta la rottura di Fini e la nascita di questa destra molto sinistra devono far riflettere. La fine della sinistra ed il crollo dell’imbroglio intellettuale catto-comunista che ha alimentato per decenni il sistema di potere italiano, hanno portato con sé una frustrazione difficilmente risolvibile con lo scadente materiale umano rappresentato dalla classe dirigente del Pd e dai suoi cantori salottieri. Ed è facile che tale frustrazione, se non risolta o rimossa in qualche modo, abbia alla lunga generato una schizofrenia tale da portare a vedere nel movimento di Fini, una Brigata Garibaldi salita in montagna per combattere il nazi-fascismo di Arcore. Questa sinistra intellettualistica, profondamente apolitica, rozza nella sua pretesa eleganza rimane incapace di rapportarsi alle logiche di una moderna democrazia dell’alternanza. Quando il prof. Asor Rosa afferma che bisogna “sradicare il berlusconismo nel paese”, e quando Filippo Rossi brinda alla fine del berlusconismo come “stagione di ignoranza al potere, bunga bunga istituzionalizzato, populismo fatto sistema, tempo della vergogna”, prende forma quella comunanza elettiva che ormai lega l’intellettualismo di sinistra a quello finiano. E questa comunanza è data da due elementi: il primo è la convinzione che Berlusconi e il berlusconismo siano una sorta di corpo estraneo alla storia del nostro paese, un morbo instillato dalla forza corruttiva del personaggio, dalle sue televisioni e dal suo sistema di potere; un accidente storico da cui liberarsi e da cui liberare la massa incolta e sprovveduta che lo ha legittimato negli anni. Il secondo è dato da ciò che in filosofia si chiama resentimment, o senso di frustrazione, e che Nietzsche aveva intravisto come base del cambiamento della distinzione morale del nostro tempo. Una frustrazione che si trasferisce dalla filosofia alla psicologia sociale per divenire categoria politica. Senza sogni da inseguire, senza carica ideale da trasmettere, senza idee, l’antiberlusconismo di destra e di sinistra si riduce a quella “demenza tirannica” che Zarathustra ha cantato come “presunzione intristita e invidia rattenuta”.
Se i finiani saranno “gli utili idioti” del nuovo risiko di riequilibrio del solito potere, lo capiremo presto. Per ora sappiamo che, in termini di cultura politica, lungi dall’essere l’unica vera, autentica destra del sistema solare, il movimento di Fini non è semplicemente subordinato alla sinistra. Ne è drammaticamente uguale.
© Il Tempo, 15 Novembre 2010
Immagine: Pablo Picasso, Acrobata e giovane Arlecchino, 1905

08 novembre 2010

Questa vecchia "nuova destra"

di Giampaolo Rossi
In estrema sintesi, la grande rivoluzione finiana si è chiusa con uno dei discorsi più deludenti mai ascoltati negli ultimi anni. Un’ora e mezzo di appelli ad un’Italia più libera, più solidale, più rispettosa della persona umana, più aperta ai deboli, più legale, più moderna, più civile, più bella, più profumata. Insomma, un manifesto politico di buone intenzioni che saremmo disposti a sottoscrivere anche noi, poveri scellerati, incolti e illegali, che non abbiamo case a Montecarlo, né rendite politiche da difendere coi denti. Risultato finale: il nuovo movimento di Fini che dovrebbe cambiare per sempre il volto della politica italiana costruendo le sorti progressive di Futuro e Libertà per il paese, si è già arenato in una posizione così debole e contraddittoria da far rabbrividire le migliori pastoie prodiane dei governi di sinistra. La richiesta a Berlusconi di rimettere il suo mandato per costituire un nuovo governo con una nuova maggioranza, alla faccia del voto elettorale e del programma che anche Fini aveva sottoscritto oltre due anni fa, non danno l’immagine di un progetto politico e di una visione del paese moderna. Al contrario, sembrano il ritorno a quel sistema di manovre di palazzo e di tatticismi molto congeniale alla natura politica e psicologica del Presidente della Camera. Il bipolarismo e la seconda Repubblica saranno pure morti, come dice Fini, ma la prospettiva che lui apre è un salto all’indietro che non lascia ben sperare sulle capacità di progettualità politica di Fini e del suo movimento.
In realtà tutta la convention umbra di Fli è sembrata la replica dimessa di una kermesse berlusconiana, ma senza Berlusconi. Al di là delle scene di entusiasmo, delle lacrime teatrali, delle emozioni tipiche da svolta storica senza storia, la ritualità è stata la stessa. Persino il logo del nuovo partito, più simile a quello di un famoso formaggino, ha dato l’idea che tutta la retorica contro il personalismo leaderistico del Pdl è solo un modo per sostituirlo con un altro personalismo e neanche tanto leaderistico. Se l’inconscio venisse analizzato anche in politica, parlerebbe molto di più il grigio dell’abito che Fini ha scelto per il suo discorso, di qualsiasi analisi politologica.
Eppure, oltre a Gianfranco Fini, questa vecchia pretesa di nuova destra ha un altro epigono che merita attenzione: Italo Bocchino. A lui si deve la creazione di Generazione Italia, il movimento che ha dato forma al progetto di Futuro e Libertà e che ha il ruolo di definire persino “l’ossatura antropologica” (così ha detto Fabio Granata) dei nuovi militanti; è a lui si devono buona parte delle scelte politiche suicide degli ultimi mesi che Fini ha diligentemente eseguito.
Ma Bocchino riesce ad essere anche l’anima immaginifica del movimento finiano, capace di far salire al potere della retorica una fantasia grandiosa. Nel farneticante discorso introduttivo, con il passo giusto e il tono della voce potente, ha detto in buona sostanza che fu Fini, nel lontano 1993, con la sua candidatura a Sindaco di Roma, a decretare la fine della seconda Repubblica “quando qualcuno ancora non sapeva cosa era la politica”; e che sarà sempre lui il protagonista della terza Repubblica che sta nascendo. E questo con buona pace dello sdoganamento che in quei lontani anni l’imprenditore Berlusconi fece alla “destra impresentabile” del Msi, consentendo al giovane Fini di iniziare un percorso politico diverso negli anni in cui, insieme a Bocchino, ancora giocava a rievocare la necessità di un fascismo del 2000 e stringeva le mani a Le Pen e ai sussulti xenofobi in Europa.
La gratitudine non è certo una categoria della politica: concederla è cosa che attiene agli uomini d’onore. Ma, per chi pretende di fondare una nuova politica, come diceva Simone Weil, che perlomeno la verità non rimanga un “supplicante muto”.
© Il Tempo, 8 Novembre 2010, pubblicato con il titolo "Questo è un salto indietro"