22 giugno 2011

un Pdl senza coraggio

Gaetano Quagliariello, intervenendo nel dibattito sul centrodestra, ha affermato che dovremmo cominciare “col chiederci quale Pdl vogliamo”. E questa è già una discreta base di partenza per un partito che, da quando è nato, non si è chiesto mai nulla e soprattutto non ha permesso ad alcuno di chiedersi qualcosa. Nonostante la miriade di fondazioni ed improbabili think tank credo, a mia memoria, che nessun partito abbia mai goduto di un’assenza di dibattito politico e culturale interno e di una così spaventosa immobilità intellettuale come quella che ha caratterizzato, in questi anni, il Pdl. Il paradosso di questo partito, che ha voluto la parola libertà persino nel suo stesso nome, non è tanto l’assenza di libertà, quanto l’assenza del desiderio di libertà della sua classe dirigente
Se ne può attribuire la responsabilità al suo leader e al suo carisma totalizzante, ma sarebbe troppo semplice. La realtà è che in questi due anni, se una responsabilità Berlusconi ha avuto, è stata, al contrario, quella di essersi totalmente disinteressato allo strumento partito, delegandone ad altri la realizzazione, sottovalutandone la funzione politica in termini di costruzione di immaginario, aggregazione di segmenti sociali, selezione di classe dirigente e radicamento territoriale. Così facendo, ha consentito ad un’oligarchia famelica di prendere possesso del Pdl imponendo regole attraverso una costante assenza di regole
In questi anni abbiamo spesso sentito parlare, dai fumosi teorici del Pdl, di “partito leggero e carismatico” come segno distintivo di questo processo. Ma i partiti leggeri sono in genere riflessi di democrazie pesanti, in grado di costruire un rapporto diretto tra società politica e civile, tra classe dirigente ed elettorato; democrazie in cui la logica delle primarie è naturale. Invece, né partito pesante, né partito leggero, il Pdl è rimasto sospeso a mezz’aria, in balia del minimo soffio di vento contrario. Ma in natura, così come in politica, sfidare la forza di gravità è cosa impegnativa. Ci vuole innanzitutto la spregiudicatezza e il coraggio che molti dei politici del Pdl non hanno avuto. Le primarie, che questo giornale chiede a gran voce, sono esattamente la forza motrice necessaria a riportare in alto un Pdl che, come la mela di Newton, è caduto in testa ai suoi incauti scienziati e a quel popolo che continua a credere in una democrazia matura e bipolare.
La realtà è che questo partito oligarchico è anche il prodotto di un’assurda legge elettorale, che consegna nelle mani di burocrazie senza legittimazione il potere di costruire candidature e dirigere destini politici. Per questo, come ha ricordato Giorgia Meloni proprio sul Tempo, se la legge non cambia, le primarie sono ancor più necessarie.
Il sen. Quagliariello sostiene che la discussione sul Pdl non sarà rimandata alle calende greche e lo dimostra “la determinazione con cui il partito si è dotato di un segretario politico”. Ottimo. Ma se per questo il Pdl si è dotato anche di un “coordinatore alla Filosofia e ai Valori”, che neppure la sottocaricatura di un Soviet avrebbe mai potuto immaginare.
Uno dei maggiori filosofi contemporanei, Roger Scruton, scrive che “la società civile è duttile. Quanto lo sia dipende da come la si percepisce. E la si percepisce da come la si descrive. Per questo il linguaggio è uno strumento importante nella politica odierna”. Ecco: il linguaggio politico del centrodestra manifesta una totale assenza di percezione di come sta cambiando il paese e, forse, di come è già cambiato. Per questo, dopo la sconfitta elettorale, nel Pdl è rimasto tutto uguale. Eppure gli spazi della politica continuano a cambiare, cambiano le narrazioni che danno senso a nuove forme di partecipazione. La politica si incontra con una dimensione orizzontale offerta dai nuovi strumenti di comunicazione e dai nuovi linguaggi, che ne mette in discussione la verticalità.
Questi sono i momenti in cui, in politica, serve una cosa sola: il coraggio. Senza di questo nulla può essere cambiato. Occorre dire come stanno le cose: il Popolo della Libertà ha perduto la libertà e sta perdendo il suo popolo. Prima che al principale partito italiano rimangano solo “il” e “della”, c’è bisogno di un atto di coraggio della sua classe dirigente, politica ed intellettuale. A cominciare dalla scelta delle primarie.
© Il Tempo, 22 Giugno 2011
Immagine: Norman Rockwell, No swimming, 1921

19 giugno 2011

la politica si fa Rete

Ed improvvisamente la politica italiana ha scoperto internet. Come d’incanto si è accorta che la Rete non è più una realtà virtuale, ma una realtà, punto e basta. Uno spazio fisico ed un luogo simbolico nel quale prendono forma identità, si alimentano dinamiche sociali, si generano conflitti. In altre parole, la Rete è uno spazio politico.
Questo vale per la campagna elettorale di Obama costruita su Facebook e su You Tube, per le rivolte arabe in Tunisia ed Egitto alimentate dalla “generazione di twitter”, per le mobilitazioni sociali dei nuovi movimentismi come quello del Tea Party americano o quello degli “indignados” spagnoli, per il ruolo avuto dai social media durante l’ultimo referendum italiano. Vale, e varrà sempre di più.
Clay Shirky, su Foreign Affairs, ha spiegato che già oggi i social media permettono di adottare nuove strategie politiche e che, sempre più, queste strategie si riveleranno cruciali. E questo perché le reti digitali nel loro complesso consentono una maggiore diffusione delle informazioni, una maggiore facilità di interazione pubblica da parte dei cittadini e una grandissima velocità di coordinamento dei gruppi. E questo non da ora: nel gennaio del 2001, nelle Filippine, la notizia dell’assoluzione dal processo per corruzione del Presidente Estrada portò in piazza migliaia di cittadini indignati, mobilitati tramite sms, che divennero milioni nei giorni successivi; la capacità di mobilitazione immediata spaventò così tanto la Corte che, qualche giorno dopo, essa dovette rivedere il giudizio votando l’impeachment e costringendo Estrada alle dimissioni.
Anche in Italia, seppur timidamente, la Rete sta diventando uno spazio politico abitato soprattutto dai giovani che diventano i nuovi protagonisti di un ritorno alla partecipazione che la politica ufficiale, quella dei frequentatori di salotti televisivi o dei dispensatori di interviste cartacee, ancora non sa riconoscere. La Rete sfrutta il processo di disintermediazione attuato dalla rivoluzione digitale, che disarticola non solo i modelli di integrazione verticale del mercato, ma anche i modelli di organizzazione sociale. La disintermediazione comporta la crisi dei mediatori tradizionali che in politica vuol dire la crisi dei partiti, almeno per come li conosciamo noi dal ‘900.
Se, come ha spiegato Hanna Arendt, la politica è relazione, ogni relazione ha bisogno di uno spazio fisico dove realizzarsi e di un luogo simbolico dove immaginarsi. La Rete, interattiva e globale, è l’estrema frontiera di un nuovo modello relazionale e quindi politico.
Ogni rivoluzione sociale, ogni processo di trasformazione che genera cambiamenti radicali, prende forma all’interno di uno spazio fisico, che si trasforma anche poi luogo simbolico necessario a fissare l’immaginario condiviso. La politica stessa è nata all’interno della polis, spazio fisico e simbolico che metteva in relazione gli uomini e formava il corpo sociale.
Anche le rivoluzioni moderne hanno avuto bisogno di uno spazio fisico e di un luogo simbolico. Quando noi pensiamo alla rivoluzione industriale ci viene in mente immediatamente la fabbrica alla base dei mutamenti del sistema produttivo e dove si sono generati i conflitti sociali. Ma la fabbrica divenne anche il luogo dove il movimento operaio e quello sindacale costruirono la propria identità. Le rivoluzioni idealiste del primo novecento, che prepararono i fermenti politici e culturali del secolo, ebbero come spazio fisico e simbolico i caffè delle città europee, luoghi dove si cospirava, si scrivevano opere letterarie o liriche, si stabilivano accordi politici, si fondavano avanguardie, si elaboravano filosofie: luoghi dove, come ha scritto il filosofo George Steiner, si è “dato contenuto all’idea di Europa”. E il ’68, l’ultima grande rivoluzione politica dell’Occidente, non può essere pensato senza collegarlo alle Università e ai luoghi di produzione di quel sapere che i sessantottini volevano abbattere.
All’interno della rivoluzione digitale che sta modificando la nostra società dal profondo ed il modo in cui agiamo e pensiamo, la Rete è insieme polis (luogo di relazione), fabbrica (spazio di un nuovo sistema produttivo), caffè (luogo di nuova creatività) e università (spazio di nuovi saperi). La Rete sta diventando lo spazio politico per eccellenza.
Se i brontosauri della politica italiana, quelli del giornalismo di carta, quelli che continuano a menarla con Santoro si o Santoro no e che quando parlano d’informazione non vanno oltre il TG delle 20, neanche fossimo ai tempi di Carosello, non si accorgono dello tsunami che li sta investendo, il problema non è solo loro. Purtroppo diventa anche nostro. La Rete ha un volto oscuro che è impossibile ignorare. La sua dimensione totalmente orizzontale rende il confine tra politica e antipolitica molto labile. Ed il rischio è che la Rete, da spazio politico, diventi il regno dell’antipolitica. E questo serve alla democrazia?
© Il Tempo, 19 Giugno 2011
Immagine: Berenice Abbott, Court of the first model tenements in New York, 1937

13 giugno 2011

Così l'Europa uscirà dalla Storia...

Romano Prodi, qualche giorno fa, è stato categorico: chi mette in discussione l’Europa e alimenta l’euroscetticismo “non ha il senso della Storia”. Per i tecnocrati di Bruxelles e per i loro referenti politici (e Romano Prodi è uno di questi), il “senso della Storia” è l’estrema difesa dietro la quale riparare il progetto di integrazione europeo dallo tsunami che rischia di investirlo. Perché per ora, chi sta uscendo dalla storia è proprio l’Europa, arrivata al suo punto di non ritorno. La crisi finanziaria, quella economica, la debolezza della sua politica nello scacchiere globale, i processi di disgregazione sociale indotti dall’immigrazione e dalla perdita delle identità e l’espandersi incontrollato di un Moloch burocratico che svuota la democrazia di ogni funzione rappresentativa, danno la percezione che il progetto di integrazione sia un grande esperimento di laboratorio mal riuscito; un esperimento costruito sulla pelle dei cittadini e dei popoli europei che ne pagano ora le conseguenze in termini di impoverimento reale, di coesione sociale e di visione del futuro.
Qualsiasi progetto storico si fonda su un principio di autorità riconosciuto e condiviso che è alla base del patto sociale. Esso fonda l’appartenenza, legittima la partecipazione e garantisce la rappresentatività di chi governa. In assenza di un’autorità riconosciuta, un progetto storico non genera libertà ma la nega. Chi ha costruito l’Europa in questa maniera, ha fatto in modo che le forme di governo reale fossero invisibili, l’autorità impalpabile e un’anonima elite tecno-finanziaria condizionasse le dinamiche politiche attraverso lo strumento della moneta unica e lo svuotamento di ruolo e funzione dei governi nazionali. L’antropologa Ida Magli, da sempre contraria a questo processo di unificazione europea, sottolinea come la perdita del “vincolo esterno” di un’autorità legittimata, svuoti il potere trasformandolo in qualcos’altro. In Europa, questo altro è la mastodontica Burocrazia che ingessa la vita degli europei e la sottopone ad un controllo continuo fatto di regole, costrizioni e pagelle.
Hermann Van Rompuy, il Presidente dell’Unione Europea, in una recente intervista ha dichiarato che il Parlamento europeo, che ormai “decide su tutto”, è uno “dei più potenti parlamenti del mondo perché non deve sostenere alcun governo”. Ecco svelata la mostruosità di Bruxelles. Se non c’è un governo, non esiste un potere legittimo. L’Europa non è una democrazia sovrana ma una democrazia regolatoria, che schiaccia i suoi cittadini sotto un totalitarismo burocratico che s’insinua in ogni aspetto dell’esistenza arrivando a normare, per esempio, i “valori massimi di oscillazione della mano e del braccio nell’uso del martello pneumatico” o a costituire organismi surreali come l’Eu-Osha, per la sicurezza sul lavoro, controllato da 84 consigli di amministrazione.
Per sostenere questa impalcatura spietata di burocrazia e di potere, a Bruxelles hanno persino coniato un nuovo tipo di lingua. Uno dei più brillanti filosofi contemporanei, Roger Scruton, ha esaminato con attenzione ciò che lui ha chiamato “Eurocratese”, la neolingua delle elite europee, funzionale, al pari di quella evocata da George Orwell, “non a descrivere la realtà ma ad affermare il potere sopra di essa”. L’eurocratese serve a conservare il sistema di privilegi su cui si fonda il dominio in Europa e per questo deve risultare incomprensibile e misterica ed in grado anche di modificare il senso delle cose. L’eurocratese è lo strumento privilegiato per impedire ai cittadini di partecipare e rendersi consapevoli dei processi decisionali.
Persino un pensatore “europeista” come Jürgen Habermas, ha dovuto ammettere che “l’integrazione europea, da sempre portata avanti senza la partecipazione del popolo, si è infilata in un vicolo cieco”.
La natura realmente non democratica dell’Unione Europea diventa oggi, però, il rischio maggiore per le elite di Bruxelles. Se l’assenza di partecipazione e di coinvolgimento di cittadini e di comunità ha consentito al potere burocratico di definire linee politiche ed economiche in maniera del tutto autoritaria, l’assenza di legittimità diventa oggi per esso il primo pericolo. Molti economisti prevedono che la crisi finanziaria scoppiata in Grecia si possa allargare ad altri paesi a meno che Bruxelles non imponga un nuovo pacchetto di aiuti che contrarrà l’economia dell’eurozona per anni. La possibilità di default dell’euro è reale. Lo scollamento tra cittadini europei e burocrazia di Bruxelles renderà sempre più difficile far accettare ricette economiche e finanziarie penalizzanti, soprattutto in virtù del fallimento che queste hanno già dimostrato.
La consapevolezza di non contare nulla nei processi decisionali a livello europeo e la percezione che i governi nazionali ormai non sono altro che revisori dei conti di agenzie internazionali di rating e potentati finanziari, rende lo spirito democratico europeo orfano della sovranità.
L’euroscetticismo dilaga non più legato a marginali proteste nazionali, ma come consapevolezza diffusa dell’imbroglio che in questi anni ha tenuto ostaggio l’economia dei popoli europei e la loro stessa possibilità di esprimere democraticamente una politica e un destino. Non più rinchiusi dentro partitini xenofobi, i movimenti antieuropeisti si sviluppano dal nord al sud dell’Europa; trovano sbocco nelle competizioni elettorali divenendo componenti fondamentali dei governi nazionali (come in Finlandia e in Olanda) o prendono la forma di movimenti d’opinione radicati e capaci di influire nell’opinione pubblica (come nel caso degli Indignados spagnoli). Attraversano i vari segmenti sociali e si mescolano alle diverse famiglie politiche. Un sondaggio su Le Monde ha rivelato che in Francia oltre il 50% degli elettori di sinistra sarebbe favorevole ad abbandonare l’Euro. Altro che movimenti populisti di estrema destra. L’antieuropeismo si trasforma sempre più in una sensibilità diffusa di una nuova politica legata ai bisogni del territorio, alla difesa delle identità e all’idea di una libertà garante dei nuovi diritti dell’individuo e della comunità.
Il richiamo romantico all’Europa pensata dai padri fondatori non regge più. E’ troppo evidente l’abisso che divide il sogno carolingio di Adenauer, Schuman e De Gasperi, dalla ragnatela messa in piedi a Bruxelles. Anche il tentativo di spiegare la necessità di questa Europa come lo strumento necessario a difendere le nazioni europee dall’impatto della globalizzazione, appare meno credibile: è proprio la globalizzazione dei mercati che la sta spazzando via.
La realtà è quella che ha scritto Leon de Winter su Der Spiegel: “l’Europa non esiste. E’ solo il chiodo fisso dei burocrati di Bruxelles”. Se l’Europa di Bruxelles non esiste forse potremmo iniziare a farne consapevolmente a meno. E magari cominciare a pensare a come costruire l’Europa dei popoli.
© La Padania, 12 Giugno 2011
Immagine: Piet Mondrian, Albero grigio, 1911

01 giugno 2011

i "cinipidi" del Pdl

Il cinipide è un piccolo insetto nero, che da anni fa strage di castagni in Piemonte, Toscana e in buona parte del resto d’Italia. Quando aggredisce, per la pianta non c’è scampo. All’inizio il castagno colpito non presenta alcun sintomo particolare, anzi l’albero, da fuori, appare rigoglioso e forte; eppure all’interno, le larve dell’insetto si sviluppano e crescono silenziose e invisibili. Solo quando arriva la primavera, sulle gemme e sulle foglie compaiono delle orribili escrescenze tonde e lisce che le deformano. E’ il segnale che il cinipide ha ormai invaso la pianta e per l’albero può iniziare una lenta agonia che lo porterà a divenire infruttifero, cosa che per un albero è leggermente umiliante.
Qualcuno si chiederà: ma questo è un editoriale politico o un articolo di agricoltura? E’ un editoriale politico, ovviamente, ma in un paese in cui molti politici sono braccia rubate all’agricoltura, parlare di politica attraverso il cinipide del castagno ci sembrava un’idea folgorante. La realtà è che il povero editorialista politico che da due anni scrive sulla crisi del Pdl, sulla necessità di riformare quel progetto, e lo fa sull’unico giornale di centrodestra che ha saputo sposare posizioni critiche e lucide sul carosello farsesco di cui Berlusconi si è circondato, non sa più cosa inventarsi per farsi ascoltare. Ma dopo che ieri, il direttore Mario Sechi, ha chiesto a gran voce le dimissioni dei vertici del Pdl e condannato “l’oligarchia senza voti e spirito” che si è impossessata del partito, il bravo editorialista politico prende la palla al balzo e rincara la dose; perché, a ben vedere, un parallelismo tra il Pdl e il castagno agonizzante, c’è. Un albero che non da frutti è come un partito che non prende voti; alla fine a che serve? L’albero a fare ombra, ma un partito?
La realtà è che, al pari dei castagni toscani e piemontesi, anche il Pdl si è riempito, in questi anni, di cinipidi. E ora se ne vedono le conseguenze. I pochi che avevano avvertito il pericolo sono stati mandati a coltivare cipolle, mentre la colonia di cinipidi si è ingrandita prendendosi sempre più potere, visibilità e spazio decisionale. Ha sfruttato la distrazione, la debolezza dell’organismo vivente aggredito, la sua giovane età (in fondo l’albero del Pdl ha appena due anni). E così, pezzo dopo pezzo, il Pdl è stato invaso da una colonia di insetti che lo hanno massacrato. Ora Berlusconi si ritrova con un albero infruttifero, debole e cadente.
Il rischio, lo abbiamo già detto altre volte, è più grande di quanto Berlusconi immagini. Il suo ruolo, nella storia politica del paese, è legato indissolubilmente alla creazione del bipolarismo italiano, di cui, l’albero del Pdl, doveva essere l’asse centrale. Se il Pdl smette di fare frutti (cioè cessa di raccogliere consensi, intercettare segmenti sociali, interpretare mutazioni, selezionare classe dirigente vera e non cinipidi) l’intero sistema politico viene meno, non solo il centrodestra. Ma se il bipolarismo muore, Berlusconi non ha più ragione di esistere; nella palude di una nuova frammentazione politica, la sua traccia narrativa si decompone e scompare. Per questo Berlusconi non può permettersi che il Pdl marcisca.
Gli esperti arboricoltori spiegano che ci sono solo due modi per combattere il cinipide: o tagliare l’albero e bruciarne il tronco per evitare che l’epidemia si propaghi, oppure coltivare una colonia di “antagonisti naturali”, come il torymus sinensis, insetti ectoparassiti che una volta liberati nell’aria, sono in grado di divorare il cinipide e salvare la pianta. Anche Berlusconi ha solo due possibilità per salvare il progetto del centrodestra, prima che le larve parassite lo riducano in polvere: o tagliare di netto l’albero del Pdl, bruciarne la carcassa e piantarne uno nuovo. Oppure, liberare nell’aria una colonia di “antagonisti naturali”, una nuova, giovane, agguerrita e selezionata classe dirigente in grado di mangiarsi i vecchi e ostinati cinipidi che non ci pensano proprio a mollare le foglie che stanno divorando. Dopo il presidente operaio, è arrivato il momento del presidente agricoltore.
© Il Tempo, 1 Giugno 2011