21 gennaio 2011

la democrazia astratta dei magistrati


di Giampaolo Rossi
Chissà se Ilda Boccassini conosce, Vassilij Kandinskij, il grande pittore russo che all’inizio del ‘900 fu tra i fondatori della pittura astrattista. Forse si, perché i magistrati milanesi che da 20 anni stanno ridipingendo lo Stato di diritto di questo paese sono uomini e donne di grande cultura e raffinata conoscenza. Ma cosa c’entra un pittore moscovita, spiritualista, innovatore del linguaggio pittorico, con una signora napoletana sessantenne, magistrato di lungo corso, che dal ‘94 vive nell’ossessione di sbattere in galera Silvio Berlusconi? Ora ve lo spiego.
Nel 1912 Kandinskij scrisse un saggio dal titolo “Elementi spirituali dell’arte”, nel quale teorizzava una pittura che cogliesse l’interiorità svincolata dalla materia e dalla realtà; "quanto più questo mondo diventa spaventoso -scriveva Kandinskij- tanto più l’arte diventa astratta, mentre un mondo felice crea un’arte realistica". Il suo ragionamento in fondo era semplice: siccome il mondo moderno, con il suo materialismo e la sua disperazione, fa schifo, non ha più senso che l’arte cerchi di riprodurlo. Anzi, occorre che l’arte si svincoli dalla realtà. Solo così, attraverso un’arte astratta, sarà possibile attuare un risveglio spirituale. Bene, la Boccassini e i suoi compañeros togati pensano più o meno la stessa cosa: siccome la nostra democrazia parlamentare fa schifo (visto che il popolo bue continua a votare Berlusconi) bisogna costruirne un’altra, astratta, che si liberi dalla volontà popolare e si regga sul governo di pochi, integerrimi e illuminati.
Ma i paralleli non finiscono qui: Kandinskij, per realizzare la pittura astratta, partì dal principio dell’autonomia del colore e lo svincolò dall’altro elemento della raffigurazione, la forma; a tal punto che la forma non era più in equilibrio con il colore ma era il colore a prevalere sulla forma. La Boccassini, i pm di Milano e il loro braccio armato dell’Anm, da anni fanno più o meno la stessa cosa. Per realizzare la democrazia astratta, svincolata da quella reale, prendono il dettato costituzionale dell’autonomia della magistratura e lo separano dall’intero contesto. Con buona pace di Montesquieu e dei principi del liberalismo, la separazione dei poteri non è più un modo per bilanciarli tra loro, bensì una via per sganciare da qualsiasi controllo e limite uno di questi: quello della magistratura, appunto. Il potere legislativo e quello esecutivo (cioè la politica), all’interno dei quali risiede la sovranità popolare, al pari delle forme di Kandinskij, diventano un abbozzo, una figura stilizzata, linee di puro contenimento.
Il processo, una volta avviato, diventa inarrestabile: Kandinskij stravolse le regole della pittura, così come questi magistrati stanno stravolgendo le regole dello Stato di diritto. Se l’arte non ha più bisogno della bellezza, la giustizia non ha più bisogno della verità. L’arte diventa pulsione interiore dell’artista, la giustizia diventa ossessione individuale del magistrato. L’artista non deve più essere ispirato dalla realtà oggettiva ma da ipotesi, “impressioni della natura interiore”, così come il magistrato non deve più perseguire un reato ma costruire un’ipotesi di questo. Il risultato è parallelo: i quadri di Kandinskij prendono il nome di “Composizioni”, “Improvvisazioni”, i procedimenti della Boccassini diventano “Teoremi”. Stessa costruzione artificiale. Se l’arte di Kandinskij rende pubblica la tensione individuale e soggettiva dell’artista, la giustizia della Boccassini rende pubblica la vita individuale degli indagati (e non solo). Perché in questa democrazia astratta, il diritto è solo un eccesso stilistico; deve scomparire, come con Kandinskij sono scomparsi i linguaggi formali (prospettive, proporzioni) che la pittura aveva sviluppato nei secoli. La Repubblica dei magistrati non ha bisogno di questi stilemi: presunzione di innocenza, diritto individuale, tutela della privacy, garanzie costituzionali, civiltà giuridica, sono legacci che limitano la sete di pura giustizia.
Ciò che ai tempi di Kandinskij nessuno comprese erano le conseguenze che avrebbe determinato il percorso iniziato: la messa in crisi del significato stesso dell’arte. Quando pochi anni dopo Marcel Duchamp prese un orinatoio e lo definì un’opera d’arte, il cerchio si chiuse. Tutto è arte quindi nulla lo è. Ciò che oggi in pochi vogliono vedere, sono le conseguenze che un uso simile della giustizia avrà nel nostro paese, terminata la caccia all’uomo contro Silvio Berlusconi. Se la democrazia astratta dei magistrati dovesse vincere, i capisaldi della civiltà del diritto in Italia verrebbero meno. Se è democrazia pubblicare sui giornali numeri privati e colloqui personali, violare il segreto istruttorio, perseguitare cittadini, allora tutto è democrazia. Quindi nulla lo è.
A proposito, sarà solo un’insignificante coincidenza, ma anche Kandinskij, come la Boccassini, era laureato in Legge.
© Il Tempo, 21 Gennaio 2011
Immagine:Vasillij Kandinskij, Composizione 8, 1916

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17 gennaio 2011

il Rutelli di destra

di Giampaolo Rossi
Alemanno volta pagina. Almeno così ha annunciato il sindaco di Roma, presentando la nuova giunta comunale. Ha promesso un “cambio di passo”, un’“accelerazione”, “l’apertura di una nuova fase” eppure, nonostante le vibranti rassicurazioni, la sensazione è che il sindaco oggi sia molto più debole e politicamente isolato. Augusto Del Noce, il grande filosofo conservatore e cattolico che è appartenuto alle letture di formazione della destra giovanile, spiegava che l’eterogenesi dei fini che attraversa la storia si riflette sui disegni rivoluzionari sotto forma di dissoluzione degli intenti originari. Il rischio quindi per Alemanno è che invece di una pagina voltata si ritrovi con un sipario calato sull’esperienza storica del primo governo di destra a Roma.
Quando una settimana fa annunciò, nella sorpresa generale, l’azzeramento della sua giunta, producendo un atto esplosivo per le possibili conseguenze politiche, in molti abbiamo creduto che lui, secondo una logica decisionista rara in una moderna democrazia, avesse già in tasca la nuova “giunta del sindaco” con la quale giocare in prima persona la partita del governo cittadino, senza più la mediazione di partiti, correnti e ambienti politici più o meno legittimati. La comunicazione ufficiale sembrava essere la conclusione di un percorso già avviato in grande segretezza e non il preannuncio di un salto nel buio. Nell’idea originaria dei consiglieri di Alemanno, a partire dal suo più stretto e ascoltato collaboratore Umberto Croppi, l’azzeramento della giunta doveva consentire al sindaco di personalizzare una nuova fase del governo cittadino, indebolito dagli scarsi risultati amministrativi e macchiato dagli scandali della parentopoli romana: insomma, un blitz stile reparti speciali. Qualcosa però è andato storto. Col passare del tempo la sensazione è stata sempre più quella di un’operazione priva di razionalità, balbettante nel suo svolgersi, che ha portato Alemanno ad incastrarsi proprio in quella palude di mediazioni e trattative da cui aveva avuto l’illusione di sganciarsi.
Sorprende che un politico come Alemanno non sappia che un atto di forza, una volta iniziato, va portato fino alle estreme conseguenze, altrimenti la forza generata si ritorce in direzione contraria. E’ una regola della politica. Alemanno invece è sembrato aver paura del gesto compiuto. E’ rimasto in mezzo al guado mentre la corrente del malcontento montava e le diverse anime del Pdl uscivano dallo stordimento iniziale. L’azione, che doveva essere lineare, incisiva, diretta e di breve durata, si è trasformata in una casbah di conflitti e richieste che hanno coinvolto tutti. Non solo il Pdl tornato in guerra nelle sue componenti romane, ma anche La Destra di Storace, l’Udc, e persino i cattolici di Rotondi che hanno costretto all’intervento diretto lo stesso Berlusconi per scongiurare la defenestrazione del vicesindaco Cutrufo e un rischio di ricaduta sugli equilibri nazionali.
Insomma, Alemanno ha combinato un caos. Il blitz si è trasformato in una tragicommedia politica, con il sindaco di Roma a girovagare in cerca di assessori della società civile che accettassero l’incarico e salvassero la sua immagine. Il risultato di questa operazione è ora un Pdl romano spaccato, con una parte di An (la forte componente dei gabbiani di Fabio Rampelli penalizzata dalle scelte del sindaco) sul piede di guerra, una parte della ex Forza Italia (quella dei fratelli De Lillo, altro serbatoio di voti cittadini) ormai pronta a transitare verso altri lidi e le restanti realtà politiche che sono riuscite a salvare le proprie posizioni ormai diffidenti sulla correttezza di Alemanno.
Fino ad oggi il sindaco è stato abile a sfruttare le divisioni storiche e le rivalità delle diverse componenti della ex An e dentro il Pdl, alleandosi prima con gli uni e poi con gli altri, stracciando accordi sottoscritti prima e adulando ex avversari e nemici. Una logica del “divide et impera” che gli ha consentito di apparire come necessario centro mediatore tra le diverse istanze. Ma è ovvio che questa situazione ora non può più durare. Se la percezione della fine del suo ciclo divenisse operativa politicamente, potrebbe portare quanto prima gli Augello, i Rampelli, i De Lillo a preferire un accordo virtuoso tra loro per preparare in maniera costruttiva la successione.
In più Alemanno non è riuscito, in questi anni, a costruire un suo gruppo di riferimento radicato nella capitale; i pochi politici di qualità legati a lui da solida amicizia, come ad esempio il deputato Antonio Buonfiglio, lo hanno abbandonato da tempo, in rottura con una gestione personalistica; e la defenestrazione di Umberto Croppi, inspiegabile da un punto di vista umano prima ancora che politico, mette in luce un altro aspetto: un capo politico che non difende i propri uomini e li sacrifica per salvarsi, pone un problema di inaffidabilità che a lungo andare si sconta con l’isolamento totale. La storica scommessa della destra su Roma ora si basa su una giunta che ha come nuovi assessori alcuni politici locali sicuramente non superiori a quelli che sono stati allontanati, un ex dirigente di Bankitalia e il presidente delle Acli, espressione di quel cattolicesimo di sinistra che non sarà mai una riserva di consensi per Alemanno. Il sindaco di Roma rischia di diventare una sorta di Rutelli di destra: benedetto dal Vaticano ma politicamente ininfluente.

© Il Tempo, 17 Gennaio 2011, pubblicato con il titolo "La Giunta spacca il Pdl romano"