18 agosto 2010

una questione di fede

di Giampaolo Rossi

Le lettere indirizzate ai vertici dello Stato, che Francesco Cossiga ha lasciato nel suo testamento, raccontano il desiderio o il bisogno di appartenere alla propria comunità nazionale fino alla fine. Forse testimoniano più di qualsiasi intervista, di qualsiasi ricostruzione storica, di qualsiasi analisi, la persona e con essa la natura di quel cattolicesimo liberale, identitario, nazionale, lealista, di cui Cossiga è stato il rappresentante più significativo. Quella tradizione politica e culturale così distinta anche all’interno della famiglia cristiano-democratica. Nella lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, Cossiga scrive: “Signor Presidente, Le confermo i miei sentimenti di fedeltà alla Repubblica, di devozione alla Nazione, di amore alla Patria, di predilezione della Sardegna, mia nobile Terra di origine”. Certo, ora arriveranno i distinguo, le rese di onore o di disonore, i giudizi di quelli che sanno sempre giudicare tutto, tranne se stessi. Ma c’è qualcosa che sfugge al giudizio: il merito di chiamare a sé la responsabilità di vivere da dentro gli eventi più drammatici della storia nazionale è una linea di confine che divide il generoso dall’iniquo, il coraggioso dal vile. E rende valore al senso più alto di ciò che dovrebbe essere un uomo di Stato.
Cossiga lascia molto e molto porta via con sé, com’è inevitabile per chi ha vissuto da protagonista gli anni più complessi della nostra storia. Ma lasciandoci queste lettere, ci dona la realtà di un’Italia che ha saputo far convivere la
“Fede Religiosa nella Santa Chiesa Cattolica” e la “fede civile
nella Repubblica, comunità di liberi ed uguali e nella Nazione italiana che in essa ha realizzato la sua libertà e la sua unità”.
E spesso, infilati nella dimensione temporale della nostra vita, facciamo fatica a immaginare cosa può pensare un uomo raggiunta la consapevolezza della fine del suo viaggio: forse al viaggio, alla fatica del cammino, a ciò che si è visto, a quello che si è lasciato, ai volti incontrati, alle cose perdute, a nulla, a ciò che si è amato, a quello che si porta via. Forse non ha tempo per pensare perché la fine di un viaggio, in fondo è solo l’inizio di un altro. Eppure, sul finire del suo viaggio, Cossiga, ha pensato a come lasciare a noi l’immagine di una devozione agli ideali in cui ha sempre creduto, che battono il tempo di un’Italia che sembra irrimediabilmente lontana dallo spettacolo miserevole a cui assistiamo ogni giorno. Nella lettera indirizzata al Presidente del Senato, Cossiga scrive:
“Fu per me un onore grande servire la Repubblica, a cui sempre sono stato fedele; e sempre tenni per fermo onorare la Nazione ed amare la Patria. Fu per me un grandissimo e distinto privilegio far parte del Parlamento nazionale e servire in esso il Popolo, sovrano della nostra Repubblica (…) Iddio protegga l’Italia”.
Come un’eco di voci sepolte, di tempi impreziositi nei libri più antichi che una biblioteca potrebbe ospitare, ci sono parole che tornano e che sembrano barbare; e tornando turbano il nostro buonsenso e il nostro spirito così intelligentemente moderno: Popolo, Nazione, Patria, e onore, e privilegio e servire. Parole che chiamano indietro, che fanno voltare, che spaventano e pesano anche per noi che le abbiamo cercate, desiderate, perdute; che le abbiamo ricevute nell’educazione di nonni combattenti sul Piave e di padri silenziosi testimoni di un’Italia perbene ed eroica sotto il terrorismo; che le abbiamo inseguite nelle suggestioni giovanili di piazze troppo rosse e di tricolori troppo sbiaditi.
Le lettere che Francesco Cossiga ha lasciato alle più alte cariche dello Stato, come testamento civile di ciò che egli ha vissuto da testimone e alfiere della nostra dignità nazionale, riempiono il vuoto drammatico che la politica ha mostrato in questi ultimi tempi. Un richiamo all’ordine e a ciò che dovrebbe essere il ruolo e la funzione della politica e della sua
auctoritas. Un richiamo a chi ricopre incarichi istituzionali e di governo ma anche ad ogni singolo deputato e senatore affinché comprendano che il valore della propria dignità, diviene valore della dignità della Repubblica che essi rappresentano. Un richiamo fatto solo attraverso la confessione di sé. Un piccolo dono d’amore per l’Italia.

© Il Tempo, 19 Agosto 2010

05 agosto 2010

Fini, la kerkaporta del pdl

di Giampaolo Rossi
Ogni assedio che si rispetti ha la sua Kerkaporta. Il pertugio, la postierla trascurata e lasciata aperta, dalla quale il nemico penetra stupefatto, fin dentro il cuore della città assediata. Stefan Zweig, raffinato scrittore di un’Europa scomparsa, nella sua raccolta di “Momenti Fatali” che hanno cambiato il corso della storia, ricorda come la caduta di Costantinopoli nel 1453, dopo tre mesi di violentissimi combattimenti, eroismi, disillusioni e speranze, avvenne proprio a causa di una negligenza che lasciò aperta la più piccola delle porte pedonali, posta tra il primo e il secondo bastione dell’impenetrabile capitale dell’Impero Romano d’Oriente. La Kerkaporta è il vero rischio per ogni assediato e la vera speranza di ogni assediante.
In questi lunghi mesi di assedio alla cittadella berlusconiana, bombardata dai poteri forti, assaltata dalle macchinose torri d’assedio giudiziarie, aggredita dalle urla mediatiche dei mercenari dell’informazione, Gianfranco Fini è stato la Kerkaporta del Pdl: il varco attraverso il quale un esercito attaccante ormai demotivato, infiacchito dalla inaspettata resistenza degli assediati e ormai pronto a levare le tende, ha sperato improvvisamente di penetrare nel cuore della città. Fini ha rischiato di rappresentare la piccola tessera di casualità che spesso completa il mosaico della storia.
Zweig racconta lo stupore del piccolo drappello di giannizzeri nel trovare la porta aperta che conduceva al centro di Bisanzio. Lo stesso stupore che ha accompagnato il tifo da stadio che l’intellighenzia progressista ha fatto in questi mesi per Gianfranco Fini e la sua improbabile armata di politici senza voti e intellettuali senza idee. In nessun paese normale un leader che si definisce di destra è così coccolato, corteggiato e adulato dalla sinistra, e solo questo dovrebbe far riflettere chi ha continuato, da destra, a pensare che la Kerkaporta finiana non esistesse.
Il danno che Fini ha prodotto nel centrodestra in questi mesi è incalcolabile. Nel tempo sarà superiore anche alle questioni morali e alle inadeguatezze che comunque sono emerse chiare e lampanti dentro il Pdl. Un danno ancora più grave per due ragioni. Primo, perché costruito attraverso un’operazione di demolizione del progetto originario che il centro-destra aveva iniziato a costruire attraverso un soggetto politico che desse corpo a un’idea del paese in linea con le sue culture maggioritarie: cattolica, liberale, riformista e identitaria. Secondo, perché fatto senza alcun disegno costruttivo ma solo con l’intento di soddisfare un protagonismo privo di identità e di reale contenuto. Fini è il solo responsabile della sua irresponsabilità. A volte gli eventi accadono a prescindere dalla volontà di chi li ha prodotti, e la sensazione è che il Presidente della Camera non abbia saputo controllare il processo di disgregazione da lui stesso avviato. Limite di chi si pensa stratega essendo solo, forse, un abile tattico.
Ora che la Kerkaporta è stata sprangata, murata, allontanando coloro che l’avevano spalancata, la difesa può ricominciare. Come andrà a finire l’assedio, è difficile prevederlo. Rinforzi all’orizzonte non se ne vedono, ma è certo che continuerà con gli strumenti usati fino ad ora. Siamo sicuri che le procure di mezza Italia sforneranno nuove ingegnose macchine d’assedio.
In questi casi, la tattica migliore per spezzare l’assedio è l’improvvisa sortita nel campo avversario. L’attacco notturno: abbassare il ponte levatoio e via, scatenare lo scompiglio e il panico tra le file nemiche. La sinistra e i suoi alleati finiani lo sanno. Ed è quello che temono. E forse è quello che sta già preparando Berlusconi. La sortita, in questa fase della politica, si chiama: elezioni anticipate. Se a questo Berlusconi sta pensando, allora lo faccia nei tempi più brevi possibili e senza tentennamenti. Magari la prossima primavera, quando le truppe finiane avranno superato la fase di esaltazione mediatica di credersi centro del mondo pur non contando elettoralmente nulla e il premier avrà avuto il tempo di testare la loro tenuta. La solitudine politica ed umana in cui si troverà Fini nei prossimi mesi lascerà sul terreno molte delle baldanzose speranze di coloro che hanno contribuito a questo sfracello. E forse anche di molti fra coloro che lo hanno seguito.
Berlusconi ha dalla sua un esercito numeroso, anche se troppo spesso inadeguato, consenso popolare e una volontà unica. Ma non può continuare a ignorare gli errori compiuti dai suoi comandanti, a partire da quel triumvirato che non è stato in grado di costruire uno straccio di partito che potesse supportare l’attività della maggioranza più votata della storia repubblicana. Il Pdl non è morto semplicemente perché non è mai nato e quindi è tutto da costruire, scegliendo finalmente le figure migliori e più fresche.
Per Fini ed il finismo, invece, sembra cominciata la parabola finale. Il salto da An a Futuro e Libertà sarebbe improbabile pure per il più spericolato free climber; figuriamoci per chi non ha mai amato le vette troppo alte e le stelle troppo vicine. Se il vicedirettore di Repubblica definisce la nuova formazione finiana una “leggera e promettente imbarcazione”, vuol dire che al massimo è un gommone di profughi in fuga. Dopo la liquidazione del Msi, quella di An e il tentativo di liquidazione del Pdl, forse per Fini è iniziata la liquidazione di se stesso.
© Il Tempo, 6 Agosto 2010